Dobbiamo porci qualche domanda su due casi partico­larmente delicati. Due dei più importanti autori russi dell’Ottocento e del Novecento vengono regolar­mente chiamati in causa da Putin e dai rappresentanti della “svolta conservatrice”: il romanziere Fëdor Dostoevskij (1821-1881) e il filosofo Nikolaj Berdjaev. I loro ritratti compaiono fianco a fianco sul sito internet del “pensiero politico conser­vatore” L’Idea russa, che è anche il titolo di un’opera di Berdjaev. Putin li cita entrambi.

Il primo, stando alle sue dichiarazioni, fa parte del suo pantheon di scrittori preferiti. Putin cita Dostoevskij insieme a Tolstoj, Čechov, Lermontov o Mandel’štam. Dichiara a Paris Match di «leggere con piacere i classici russi, in particolare Dostoevskij e Tolstoj». Il riferi­mento all’autore di Delitto e castigo e dell’Idiota torna in seguito a ragion veduta, ma in maniera troppo meccanica, troppo circostanziale per risultare profonda.

Molteplici visioni

Nel 2006 a Dresda, la città tedesca in cui ha lavorato per il Kgb e di cui Dostoevskij ha assiduamente visitato il museo durante i suoi viaggi in Europa, il presidente inaugura un monumento dedi­cato al grande scrittore. In quell’occasione tesse le lodi di un Dostoevskij moderato e filoeuropeo. «Uno degli slogan di Dostoevskij è il seguente: “La bellezza salverà il mondo”» dichiara. «Lo scrittore guardava soprattutto all’armonia tra le genti. In questo senso è simbolico il gesto delle autorità tede­sche di Dresda: significa che viviamo in uno spazio culturale europeo unito». Pathos degno di un sognatore dostoevskiano.

L’anno dopo Putin evoca il romanziere in una modalità più vendicativa. Rifacendosi al famoso discorso su Puškin pronunciato dal romanziere qualche settimana prima di morire e sulla sua “definizione politico-filosofica del destino europeo della Russia” Putin trae le seguenti conclusioni: «Senza la Russia l’Europa non sarà mai se stessa nel mondo, tanto quanto senza l’Europa la Russia non potrà uscire da quella che Dostoevskij chiama “nostalgia europea”».

Putin praticamente esorta a non lasciare fuori la Russia dal processo di integrazione europea. L’uso che il presidente fa di Dostoevskij è a dir poco fluido. La svolta conservatrice però assegnerà un ruolo nuovo all’autore dei Fratelli Karamazov. Lo scrittore apprezzato per la sua dolcezza cristica e la sua visione ecumenica del legame che unisce Europa e Russia diventa o ridiventa di colpo il feroce avversario dell’intelligencija liberale, socialista e filoccidentale, torna a essere l’autore del romanzo-pamphlet antinichilista I demoni.

L’adattamento

Il 25 maggio 2014, la stessa sera delle elezioni presidenziali in Ucraina che decretano la vittoria del movimento filoeuropeo, il canale televisivo Russia 1 trasmette i primi episodi di una serie di Vladimir Chotinenko molto pubblicizzata, un adattamento dei Demoni. Il regista, membro del Consiglio del patriarcato ortodosso di Mosca per la cultura, rivolge un messaggio molto chiaro agli intellettuali filoeuropei del suo tempo: il paese non vi vuole bene.

Ricordiamo che il romanzo racconta il complotto di rivoluzionari senza scrupoli contro il potere legittimo in una città di provincia: giovani nichilisti cinici e brutali, spronati da intellettuali occidentalisti ridicoli, finiscono per assassinare un militante nazionalista ortodosso.

I liberali di oggi mangiano la foglia. Sulla radio Eco di Mosca lo scrittore Dmitrij Bykov, poeta satirico e cronista antiputiniano, si scaglia contro l’adattamento televisivo, che definisce un «delitto contro il testo e il contesto». Trova stupido «considerare “demoni” gli intellettuali russi avidi di libertà». Quanto alle voci antioccidentali, si gustano la carica contro i vituperati “liberali”.

Secondo Sergej Luk’janenko, autore di fantascienza e fantasy, «gli eventi in Ucraina corrispondono esattamente a quello che scriveva Dostoevskij. Si tratta di una situazione classica di lotta contro la Russia. (...) Tuttavia gli ucraini fanno parte del popolo russo». Ecco qui Dostoevskij mobilitato in pieno per fini ideologici. Uno dei più famosi scrittori russi che ha segnato in modo durevole la vita culturale e filosofica nazionale, che ha ispirato tutti i grandi pensatori russi da Solov’ëv a Berdjaev, sarebbe quindi putiniano?

Dal fourierismo alla reazione

Per i sostenitori della svolta conservatrice non ci sono dubbi. Dostoevskij, che in gioventù è stato un filoeuropeo con tendenze socialiste prima di vivere l’esperienza della detenzione e dei lavori forzati, ha criticato le ideologie occidentali del suo tempo: il socialismo rivoluzionario, l’anarchismo, l’utilitarismo, il positivismo e lo scientismo, che vede come varianti di un ateismo distruttivo. Nei Demoni ha voluto dimostrare la filiazione esistente tra i liberali idealisti occidentalisti degli anni Quaranta dell’Ottocento e la generazione successiva, violenta e negazionista.

In particolare negli anni Settanta dell’Ottocento si è avvicinato ad ambienti più reazionari. In quell’epoca annota nel Diario di uno scrittore, citato volentieri dai seguaci della Via russa, le sue dichiarazioni più sensazionali. Fa l’apologia di Nikolaj Danilevskij, che ha percorso il suo stesso itinerario ideologico, dal fourierismo alla reazione. Tesse le lodi di «un libro eccellente, La Russia e l’Europa», ma gli rimprovera di essere «poco chiaro e non fondato» a proposito del «futuro destino di Costantinopoli». Secondo Dostoevskij si sarebbe dovuta riprendere Istanbul ai turchi e metterla sotto il controllo esclusivo dei russi anziché, come propone Danilevskij, di tutti gli slavi. Lo scrittore ha una visione messianica del ruolo della Russia. Le virtù del popolo russo, unite alla forza dell’impero, devono salvare il mondo. Fa un’esaltazione continua dell’anima russa e delle radici nazionali.

Alla fine Dostoevskij sembra talmente ossessionato da quella che percepisce come un’alleanza tra la Chiesa cattolica romana e le forze socialiste che scivola in una teoria religiosa un po’ delirante. Perfino un fautore della svolta conservatrice come Boris Mezhuev ritiene che Dostoevskij, fanatico della lotta contro il cattolicesimo, non influenzi su questo l’attuale politica russa, che è ben lontana dal dare inizio a una guerra di religione contro Roma.

Nazionalismo aperto

Il quadro è molto incompleto. Non si può negare che negli anni Settanta dell’Ottocento Dostoevskij sia stato molto vicino alle dottrine più reazionarie né che abbia sviluppato una teoria religiosa filortodossa, ma l’uomo, l’intellettuale impegnato e il romanziere sono stati molto più di questo.

Sul piano delle idee politiche e filosofiche ricordiamo soltanto che all’inizio degli anni Sessanta dell’Ottocento, tornato dal bagno penale, Dostoevskij fonda un giornale per proporre una teoria alternativa al movimento slavofilo e all’occidentalismo. Ricordiamo anche che, a metà del decennio successivo, Dostoevskij cambia e si interessa da vicino, talvolta con simpatia, alla nuova generazione rivoluzionaria che si allontana dal nichilismo a beneficio di un populismo a volte quasi mistico. La sua teoria nazionalista, inoltre, si rivela molto più complessa della teoria dei “tipi storico-culturali” di Danilevskij, il quale afferma la specificità irriducibile dei tipi e la distanza che li separa scrivendo a tal proposito in La Russia e l’Europa: «È difficile per un francese o un inglese pensare come i tedeschi, ed è ancora più difficile per uno slavo a causa della distanza etnografica».

La visione dostoevskiana dell’uomo russo è diametralmente opposta a quella di Danilevskij. Secondo l’autore dell’Adolescente, romanzo in cui mette in scena il suo ideale di “russo universale” tramite la figura dell’aristocratico déraciné Versilov, «ogni francese può servire non soltanto la sua Francia, ma l’umanità stessa rimanendo però francese al massimo grado, e così pure l’inglese e il tedesco. Soltanto il russo (…) ha acquistato la possibilità di diventare tanto più russo quanto più è europeo. Ecco la differenza fondamentale tra noi e tutte le altre nazioni. In Francia io sono francese, col tedesco sono tedesco, coll’antico greco greco, e allo stesso tempo sono russo al massimo grado».

Naturalmente in Dostoevskij questa facoltà di apertura strutturale finisce per affermare la superiorità dei russi sui francesi o sui tedeschi, ma ha il vantaggio di sottrarsi a ogni pseudoscienza dei popoli, di comportare una dimensione etica e di essere più dialettica della teoria della preminenza genetica dei russi. Dostoevskij non dimentica mai di essere lui stesso un pietroburghese e un intellettuale déraciné innamorato della cultura occidentale. L’idea della nazione russa in quanto vittoria sulla fragilità permetterebbe, secondo lo scrittore, di andare oltre il faccia a faccia tra occidentalisti e slavofili.

L’universalità russa che auspica è stata infatti resa possibile solo grazie a «una maggiore larghezza di orizzonti» sull’Europa inaugurata da Pietro il Grande, larghezza di orizzonti che non ha altri esempi in nessun popolo del mondo. Gli slavofili, con il loro ripiegamento nazionale, si rendono incapaci di concepire la missione universale della Russia. Gli occidentalisti, scambiando quell’allargamento per un’imitazione dell’occidente, non hanno capito che quell’universalità non faceva che accelerare il destino salvifico dell’idea ortodossa russa. Si tratta della visione aperta del nazionalismo che Dostoevskij difenderà in Discorso su Puškin, l’invito alla costruzione di un genio russo più culturale e pacifico che militare e politico.

Essenza polifonica

Il meno che si possa dire è che Dostoevskij è più pazzo, geniale e profondo di Danilevskij. È nazionalista, panslavo e intollerante nei confronti delle altre confessioni, e allo stesso tempo è universalista, unanimista e profondamente europeo. Questa “vastità” quasi incomprensibile trova ovviamente la sua espressione più alta nei suoi romanzi. In Diario di uno scrittore molti lettori preferiscono brani estemporanei di fantasia come Bobok, Il sogno di un uomo ridicolo o La mite, senz’altro più emozionanti dei proclami nazionalisti o delle sue pesanti analisi storiche.

Dostoevskij romanziere manda in frantumi ogni tentativo di rendere il suo messaggio definitivamente ideologico. I demoni non sarebbe una delle opere più importanti della letteratura mondiale se si riducesse a un’accusa contro i liberali. La realtà umana descritta da Dostoevskij va oltre le etichette politiche.

Dietro uno dei personaggi più misteriosi del romanzo, il capo dei rivoluzionari Pëtr Stepànovič Verchovenskij, si può vedere un nichilista o un socialista, ma il lettore percepisce soprattutto un misero individuo pulitino, preciso e meticoloso, a volte cerimonioso e a volte sfacciato, un uomo avido di potere che padroneggia meglio di chiunque altro i piccoli segnali corporei del dominio e dell’umiliazione. Pëtr Stepànovič spinge il proprio talento di attore fino a interpretare se stesso e passare per un tipo ordinario. Adula, mente, manipola, ridicolizza, controlla, spia, comanda, brutalizza. Se Dostoevskij l’avesse ambientato ai nostri giorni forse ne avrebbe fatto un’ex spia diventata leader nazionale.

Infine, il romanzo di Dostoevskij ha un’essenza polifonica. Le opinioni più opposte a quelle attribuite all’autore hanno la loro chance. Nemici di Stato, nichilisti, pedofili stupratori, vecchi logorroici e idioti universalisti parlano tanto quanto gli altri. A volte Dostoevskij ci prende gusto, e sono i momenti in cui impressiona di più. In una lettera risalente al periodo in cui scrive I fratelli Karamazov il romanziere afferma che con la leggenda del Grande Inquisitore ha voluto criticare il blasfemo: «La bestemmia l’ho rappresentata con l’intensità con cui l’ho sentita e compresa io stesso». L’autore avrebbe anche suggerito che l’eroe positivo del romanzo, il giovane cristiano Alëša, nel previsto seguito del libro diventasse un regicida.

Dostoevskij è uno scrittore troppo immenso perché se ne accaparri un discorso ideologico, tantomeno un nazionalismo con pretese scientifiche.

Il testo è un estratto dal libro Nella testa di Vladimir Putin, di Michel Eltchaninoff, traduzione dal francese di Alberto Bracci Testasecca, edito da Edizioni E/O (2022).

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