A Gaza continua il massacro di Israele contro i civili, Human Rights Watch protesta invano, 100 morti nelle ultime 24 ore, tra cui molte donne e bambini. Il Medio Oriente è al centro del mondo, ma non sembra esserci speranza. E Donald Trump è proprio lì. La sua strategia “bipolare” – aperture seguite da minacce – complica un accordo nei negoziati tra Stati Uniti e Iran sul programma nucleare di Teheran, il punto di maggior crisi oltre alla guerra tra lo stato ebraico e Hamas, nel complicato puzzle mediorientale.

Il presidente dell’Iran, Masoud Pezeshkian, ha risposto duramente a Trump, dopo che il presidente Usa, pur lasciando intendere progressi nei colloqui di Muscat, in Oman, ha definito Teheran «la forza più distruttiva della regione». «Trump pensa di poterci sanzionare e minacciare, ma l’instabilità la causano gli Stati Uniti», ha dichiarato.

Fonti iraniane sono però possibiliste: l’Iran sarebbe pronto ad accettare un accordo in cambio della revoca delle sanzioni, ha detto a Nbc News Ali Shamkhani, consigliere della Guida suprema Khamenei. Teheran accetterebbe di non costruire armi nucleari, ridurre le scorte di uranio arricchito, limitare l’arricchimento a fini civili e permettere ispezioni internazionali.

Secondo l’Agenzia internazionale per l’energia atomica, l’Iran ha accelerato l’arricchimento dell’uranio fino al 60 per cento, un livello elevato ma ancora inferiore al 90 per cento necessario per scopi militari.

Interessi reciproci

La posizione di Washington è rigida: l’Iran deve rinunciare completamente all’arricchimento dell’uranio, condizione che implicherebbe lo smantellamento totale degli impianti nucleari di Natanz, Fordow e Isfahan. Trump continua a evocare la possibilità di un intervento militare del Pentagono nel caso la diplomazia fallisse, soprattutto dopo il suo viaggio in Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi Uniti, che ha volutamente escluso Israele.

Gli ayatollah hanno tutto l’interesse a trovare un’intesa con l’America (per il benessere economico del popolo iraniano in cambio dell’alleggerimento delle sanzioni) ma respingono in modo fermo lo stop totale all’arricchimento e il trasferimento delle scorte. Teheran inoltre esclude che il programma di missili balistici possa far parte dei negoziati.

Lo scenario resta incerto, con troppi elementi in movimento per prevedere l’esito. La novità maggiore riguarda il cambio di tono di Trump nei confronti di Benjamin Netanyahu. Il premier israeliano è stato escluso dal viaggio del presidente in Medio Oriente, scelta che segna una presa di distanza da Tel Aviv per rafforzare (a suon di centinaia di miliardi) i rapporti con le monarchie del Golfo, in particolare Arabia Saudita e Qatar. L’obiettivo è costruire nuovi equilibri regionali senza dover fare i conti con il peso politico di Netanyahu, sempre più isolato. Dietro la decisione, anche il timore che Bibi possa ostacolare i negoziati sul nucleare iraniano e la questione palestinese.

La complessità di questo confronto è emersa chiaramente quando, poche settimane fa, lo stesso Trump ha ammesso di aver frenato l’impulso bellicista di Israele, con Netanyahu deciso a lanciare un attacco preventivo contro i siti nucleari iraniani.

Oggi il premier dello stato ebraico mantiene una linea ancora più rigida: la sua agenda politica, oltre all’annientamento di Hamas – per cui ha già causato la morte di 60mila civili palestinesi a Gaza, in gran parte donne e bambini – ruota attorno alla neutralizzazione della minaccia iraniana, considerata una linea rossa invalicabile. Israele, quindi, resta l’elemento centrale e inamovibile in questa complicata equazione. E, sebbene non venga mai affrontato apertamente – un vero e proprio tabù – anche il suo arsenale nucleare è un tema latente che condiziona i negoziati.

A fine aprile si è avuto uno dei rari momenti in cui le tensioni sotterranee del Medio Oriente sono emerse in modo chiaro, andando ben oltre il conflitto tra Israele e Hamas per la conquista di Gaza. Durante una conferenza stampa, Sharren Haskel, 41 anni, viceministra degli Esteri del governo Netanyahu e figura di spicco del partito di destra “Nuova Speranza”, è stata incalzata da una giornalista di Russia Today proprio sul tema tabù: l’arsenale nucleare israeliano.

Haskel ha evitato una risposta diretta, ma la domanda ha riacceso l’attenzione sulla doppia questione nucleare che grava sulla regione: da un lato la deliberata ambiguità (in ebraico, amimut) di Tel Aviv sul proprio armamento atomico (stimato tra 90 e 200 testate: la maggior parte sarebbe dislocata in siti segreti nel deserto, con Dimona come struttura più nota); dall’altro la persistente ambizione nucleare dell’Iran, considerata dallo stato ebraico un pericolo esistenziale.

«L’Iran non deve avere l’arma nucleare», ha dichiarato Haskel. «È una minaccia non solo per Israele, ma per il mondo intero. Israele stabilizza la regione, l’Iran la destabilizza. Disarmare Teheran è interesse della comunità internazionale». Per questo, l’ombra delle testate nucleari israeliane continua a proiettarsi sul Medio Oriente.

Silenzio ufficiale

Nonostante il silenzio ufficiale di Tel Aviv, alcune crepe nella politica dell’ambiguità cominciano ad aprirsi. Nel novembre 2023, il ministro del Patrimonio, Amihai Eliyahu, aveva dichiarato che si sarebbe potuta usare una bomba atomica su Gaza per «sterminare tutti i palestinesi».

La frase, accolta con indignazione internazionale, è stata letta come un’ammissione indiretta delle capacità nucleari di Israele. Netanyahu ha reagito con una sospensione formale – ma temporanea – del ministro. Narrativa però tipica del governo israeliano, visto che il “messianico”, Ben Gvir, titolare del dicastero sulla sicurezza nazionale, invoca l’annientamento di Gaza e sogna una “Grande Israele” fondata sull’occupazione permanente dei territori.

Pare incredibile, comunque, che oggi l’Iran sembri seguire la stessa traiettoria adottata da Israele negli anni Sessanta: spingersi fino alla soglia della capacità nucleare militare senza condurre test, mantenendo l’opacità ma arrivando a un punto in cui l’assemblaggio di un ordigno diventa questione di settimane.

Lo confermano documenti declassificati di quell’epoca. Un rapporto dell’Intelligence and Research del Dipartimento di Stato Usa, datato 9 marzo 1967, riportava informazioni dai servizi israeliani secondo cui il reattore di Dimona operava a pieno regime per fini militari e che lo Stato ebraico era a sole sei-otto settimane dal poter assemblare armi atomiche.

Questi dati smentivano le valutazioni ufficiali degli americani e indicavano una sofisticata strategia di inganno nei confronti degli ispettori. Durante la crisi che sfociò nella Guerra dei sei giorni, Israele – come rivelato solo nel 2017 – avrebbe segretamente assemblato i suoi primi ordigni nucleari con il plutonio di Dimona, pronti per un’eventuale «dimostrazione estrema».

Misterioso furto d’uranio

Il lungo inganno di Dimona e il patto segreto siglato nel 1969 tra Richard Nixon e Golda Meir, che garantì copertura all’arsenale atomico israeliano, hanno istituzionalizzato l’amimut come pilastro dell’eccezionalismo nucleare di Israele.

A complicare il quadro ci sono poi le accuse, tramite documenti declassificati, secondo cui negli anni sessanta Israele avrebbe rubato uranio arricchito dagli Stati Uniti per scopi militari. Il materiale sarebbe stato sottratto dall’impianto Numec in Pennsylvania e trasferito in Israele. La Cia confermò che il furto avvenne e che diverse amministrazioni, compresa quella di Jimmy Carter, contribuirono a insabbiare il caso per evitare tensioni diplomatiche.

Questa capacità militare mai dichiarata, costruita anche grazie a quel furto, è alla base della cosiddetta “Opzione Sansone”: la dottrina della rappresaglia nucleare totale, in caso di minaccia esistenziale per lo stato ebraico. Anche per questo il Medio Oriente resta un intreccio instabile di paure storiche, ambizioni nazionali, calcoli strategici e ipocrisie internazionali, che si giocano sul piano dell’intelligence, della guerra cibernetica e delle operazioni sotto copertura.

C’è perfino chi sostiene che un Iran dotato di armi nucleari, pur con tutti i rischi connessi, potrebbe introdurre una forma di “stabilità strategica” simile a quella della Guerra Fredda, fondata sulla deterrenza reciproca. Sebbene l’“Opzione Sansone” sia concepita per garantire la sopravvivenza di Israele, la sua esistenza alimenta sfiducia nella regione e potrebbe innescare una corsa agli armamenti da parte di altri attori, a partire dall’Arabia Saudita (magari con il beneplacito di Trump).

È un paradosso strategico: cercare sicurezza assoluta rischia di generare instabilità permanente. Si tratta di una tesi minoritaria e controversa, infatti gran parte degli analisti di geopolitica considera un Iran nucleare come una minaccia grave e inaccettabile.

Eppure, voci autorevoli come Kenneth Waltz hanno sostenuto che la bomba atomica iraniana potrebbe riequilibrare il potere con Israele e ridurre l’aggressività tramite la logica della deterrenza. E anche il politologo americano John Mearsheimer, pur non auspicando un Iran nucleare, ha più volte affermato che Teheran si comporterebbe in modo razionale in un sistema a deterrenza multilaterale.

© Riproduzione riservata