Per tamponare la crisi economica e finanziaria causata dalla pandemia e dalla guerra in Ucraina il presidente egiziano, Abdel Fattah al Sisi, ha deciso di mettere in vendita diverse aziende nazionali agli investitori privati. Nei mesi scorsi rappresentanti di alto livello di Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Qatar si sono recati al Cairo per mettere le mani su imprese egiziane redditizie e salvare il presidente al Sisi dalla disfatta.

La crisi

Da quando è iniziata la guerra la lira egiziana si è svalutata di oltre il 17 per cento. Il rapporto debito/Pil del paese è all’85 per cento, mentre gli ultimi dati sulla soglia di povertà si attestano intorno al 29 per cento (una cifra considerevole dato che in Egitto si contano 102 milioni di abitanti).

Il 15 maggio scorso il primo ministro egiziano Mostafa Madbouly ha detto in conferenza stampa che il paese sta attraversando una crisi senza precedenti: «Le ripercussioni della guerra ci hanno gravato pesantemente sul piano finanziario». Il governo egiziano stima perdite per 7.1 miliardi di dollari nell’immediato e 18.3 miliardi nel medio lungo periodo dovute «all’aumento dei prezzi di materie prime come il grano, il petrolio e persino dei tassi di interesse». A oggi, l’obiettivo principale dell’Egitto è attirare il maggior numero di investimenti stranieri e privati, oltre a non perdere i contratti già firmati prima dell’invasione dell’Ucraina, avvenuta lo scorso 24 febbraio.

A soccorrere l’Egitto ci hanno pensato le monarchie del Golfo Persico, interessate sia agli affari sia a mantenere una stabilità politica nel paese evitando sommosse popolari che possano far vacillare il potere del presidente al Sisi, considerato da tutti un interlocutore credibile e rispettato. Nei mesi scorsi il generale egiziano si è recato in prima persona in visita nelle monarchie del Golfo per trovare soluzioni alternative alla crisi alimentare ed energetica scatenata dalla guerra. Per ora, sono stati già promessi investimenti in aziende egiziane nel campo delle telecomunicazioni, dei fertilizzanti e del settore finanziario per circa venti miliardi di dollari. Lo scorso 12 aprile la Abu Dhabi Development holding company, uno dei fondi sovrani degli Emirati Arabi Uniti, ha investito circa due miliardi di dollari in cinque società egiziane quotate in borsa: la piattaforma di pagamenti online Fawry, la compagnia statale Alexandria Container and Cargo Handling Company, la Abu Qir Fertilizers, la Commercial International Bank e la Misr Fertilizers Production Company.

Ma non basta, il governo egiziano intende anche fondere sette tra i maggiori porti marittimi sotto l’ombrello di un’unica società per poi quotarla nella Borsa egiziana e attirare i soldi dei privati. Tra i porti che rischiano di entrare nella lista ci sono quelli di: Damietta, Alessandria, Port Said Est, Port Said Ovest, Ain Sukhna, Safaga e Al-Adabiya.

Il rincaro dei prezzi

Quest’anno il governo egiziano stima una spesa di 4.4 miliardi di dollari per le forniture di grano, a fronte di 2.7 miliardi spesi lo scorso anno. Mentre per il petrolio la spesa è di 11.2 miliardi contro i 6.7 del 2021. L’Egitto è uno dei maggiori importatori di grano proveniente da Russia e Ucraina. Metà delle sue importazioni provengono da Mosca mentre circa un altro 30 per cento da Kiev. Inoltre, il Cairo importa anche oltre la metà del suo olio di girasole dall’Ucraina. Dopo aver proibito le esportazioni delle proprie materie prime, il governo egiziano ha cercato di stringere accordi con Argentina, India, Francia e Kazakistan per cercare nuove forniture di cereali. Il 15 maggio scorso il ministro egiziano degli Approvvigionamenti Aly Moselhy ha annunciato che il paese acquisterà mezzo milione di tonnellate di grano dall’India, nonostante Narendra Modi ha messo al bando le esportazioni per evitare che la crisi alimentare colpisca anche il suo paese.

La strategia

Mohamed Al Hammadi/Ministry of Presidential Affairs via AP

La strategia scelta dal presidente al Sisi per cercare di uscire dal “pantano” è un nuovo prestito al Fondo monetario internazionale e la privatizzazione di alcune società. Inoltre, si cercano aziende straniere disposte ad acquistare progetti per costruire nuove reti ferroviarie e infrastrutture.

Secondo una bozza di documento inviata ai media egiziani, il governo ha intenzione di liquidare le sue proprietà in 79 aree diverse, la maggior parte delle quali si riferiscono all’agricoltura e all’edilizia. Se i calcoli sono giusti, le entrate stimate dal governo sono di circa dieci miliardi di dollari ogni anno per i prossimi quattro.

Parallelamente, la squadra di governo di al Sisi si muove anche sul piano internazionale. A fine marzo le istituzioni del paese si sono rivolte al Fondo monetario internazionale in cerca di un ulteriore prestito dopo quelli ottenuti nel 2020 e nel 2016. Ma le trattative non sono semplici, soprattutto perché il Fondo monetario internazionale, come sempre, chiede in cambio riforme strutturali che tendono a gravare sulle fasce più deboli della società.

Le critiche

Nel frattempo, però, c’è chi chiede la sospensione dei mega cantieri voluti dal presidente al Sisi, che negli ultimi anni ha tentato di aumentare il suo consenso popolare approvando programmi per creare nuove città, porti e infrastrutture in diverse parti del paese. In totale, secondo i dati del governo egiziano questi progetti hanno un costo che si aggira intorno a 328 miliardi di dollari.

Durante una sessione del parlamento egiziano tenuta lo scorso 9 maggio il deputato Mustafa Bakri ha chiesto la sospensione dei cantieri: il presidente al Sisi ha deciso di attuare «progetti per garantire una vita dignitosa, il che è significativo. Altri progetti, tuttavia, nonostante la loro importanza, devono essere temporaneamente interrotti a causa delle ripercussioni della guerra russo-ucraina e di altre crisi globali», ha detto.

Quella che appare la scelta più razionale per dirottare risorse economiche verso altri settori più precari e fragili non sembra convincere ancora il presidente egiziano che proprio su quei progetti ha investito il suo mandato politico. Ma la scelta di svendere asset strategici e aziende nazionali ad Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi Uniti, che già fiutano le loro potenzialità, rischia di provocare, almeno nel lungo periodo, l’effetto contrario a quello sperato.

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