Ci sono voluti poco più di dieci mesi di intenso lavoro per costruire il complesso carcerario più esteso d’Egitto e uno tra i più grandi al mondo.

Ai microfoni di una radio egiziana il presidente Abdel Fattah al Sisi ha annunciato che nelle prossime settimane «se Dio vuole» sarà inaugurata quella che è una vera e propria città carceraria che sorge in una zona isolata, fuori dalla capitale, sull’autostrada che dal Cairo porta ad Alessandria. 

Nei giorni scorsi alcuni rappresentanti del ministero dell’Interno, membri del parlamento e i media hanno avuto modo di ispezionare il complesso architettonico di Wadi al Natrun, in grado di ospitare fino a 34mila prigionieri secondo i dati rilasciati dalle istituzioni egiziane.

La prigione

Il progetto, presentato un po’ in sordina, è l’ultimo delle grandi costruzioni volute dal generale al Sisi da quando è al potere (2013). Oltre agli agglomerati urbani e alle infrastrutture che sono sorte dalla sabbia del Sahara, secondo l’Arab organization for human rights in Uk dal 2016 il presidente egiziano avrebbe costruito anche 13 nuove prigioni dove stipare migliaia di cittadini arrestati negli ultimi anni. Tra questi, spiccano i 60mila detenuti tra attivisti, avvocati, giornalisti e dissidenti. 

Per quanto riguarda la prigione di Wadi al Natrun non ci sono informazioni sui finanziatori, ma già sono stati rivelati importanti dettagli sulla struttura che includerà: un ospedale dotato di attrezzature all’avanguardia, tribunali, una sede del ministero dell’Interno, campi da calcio, farmacie, fattorie, laboratori, luoghi di culto, centri di formazione e serre per la coltivazione agricola.

«La costruzione di un grande complesso carcerario mostra la mentalità del regime che governa l’Egitto. Invece di investire nel sistema sanitario ed educativo e migliorare le condizioni economiche dei cittadini, il regime ha speso ingenti somme di denaro per costruire un carcere», dice Sara Mohani, attivista egiziana dell’associazione a difesa dei diritti umani EgyptWide.

Secondo la ricerca open source dell’organizzazione per i diritti umani “We Record”, la prigione di Wadi al Natrun è estesa circa 216 ettari ed è delimitata da una barriera alta sette metri. La struttura è talmente grande che è in grado di ospitare circa il 28 per cento della popolazione carceraria dell’intero paese che si aggira intorno ai 120mila detenuti. La maggior parte di questi verranno trasferiti dalle altre prigioni.

Costruire l’istituto penitenziario in un luogo così isolato «è una vendetta perché la prigione di Wadi al Natrun è molto lontana da molte delle città in cui vivono le famiglie dei detenuti, il che rende difficile alle famiglie visitare i loro parenti», dice Mohani.

Tra i nuovi detenuti non dovrebbe rientrare Patrick Zaki, lo studente egiziano dell’università di Bologna che si trova nel carcere di massima sicurezza di Tora dal 7 febbraio 2020. Sebbene gli amici e i famigliari di Zaki hanno annunciato che il giovane studente sarà trasferito in un altro carcere, dato che l’istituto penitenziario di Tora verrà chiuso e demolito insieme ad altre 12 prigioni nei prossimi mesi, questo non sarà quello di Wadi al Natrun, in quanto non ospiterà prigionieri politici. «Lo spirito è che il 7 dicembre – giorno in cui si terrà la prossima udienza – Patrick Zaki esca da una prigione e non ci facci più ritorno» dice Riccardo Noury portavoce di Amnesty International Italia.

Lo stato delle prigioni egiziane

FILE - In this Aug. 22, 2015, file photo, a member of the Muslim Brotherhood waves his hand from a defendants cage in a courtroom in Torah prison, southern Cairo, Egypt. A report released by Amnesty International Wednesday, April 21, 2021, said the number of executions worldwide in 2020 plummeted to its lowest level in at least a decade. But the report said four states in the Middle East — Iran, Egypt, Iraq and Saudi Arabia respectively — topped the global list and pressed on with shootings, beheadings and hangings, ignoring pleas by rights groups to halt executions during the pandemic. (AP Photo/Amr Nabil, File)

«Un uomo non lo puniremo due volte», ha detto il presidente al Sisi nel presentare la sua nuova prigione, sottolineando l’approccio del nuovo istituto penitenziario. Ma da diversi anni ong e società civile hanno denunciato le violazioni che accadono nelle celle egiziane.

«Le problematicità delle carceri egiziane le conosciamo bene: vanno dal sovraffollamento, alle condizioni igienico sanitarie inadeguate, fino all’uso dell’isolamento come una pratica punitiva. Un nuovo carcere non risolverà la situazione», dice Riccardo Noury. Situazione peggiorata con la pandemia che, come in altre parti del mondo, è giunta fin dentro le carceri egiziane.

Per far fronte ai contagi sono state ridotte drasticamente, se non annullate in certi casi, le visite di avvocati e parenti e soltanto nell’ultimo periodo sono ammesse visite per una durata massima di 20 minuti come evidenziato da Human Rights Watch nel suo ultimo rapporto. Basti pensare che il blogger Mohammed Oxygen, detenuto da inizio 2020, è riuscito a vedere i suoi famigliari per la prima volta soltanto la settimana scorsa.

La strategia di Al Sisi

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Per molti osservatori il carcere di Wadi al Natrun è il risultato della pressione della comunità internazionale sull’Egitto per il rispetto dei diritti umani. Nelle ultime due settimane questa strategia si è manifestata in maniera esplicita con una serie di provvedimenti adottati.

Abdel Fattah al Sisi ha presentato una «nuova iniziativa per i diritti umani» che ha l’obiettivo di riformare il codice penale e a migliorare le condizioni di vita dei detenuti. A questo si somma la fine delle stato di emergenza entrato in vigore nel 2017 dopo alcuni attentati alle chiese copte egiziane e che ha permesso alla sicurezza nazionale di allargare le maglie della repressione nei confronti di giornalisti e dissidenti.

Ma la società civile resta guardinga e aspetta di capire cosa accadrà nelle prossime settimane. «Al Sisi sta facendo una campagna di pubbliche relazioni di insieme. Il progetto della nuova prigione sul modello statunitense, la carta dei diritti umani e la fine dello stato di emergenza, non sono altro che una strategia per mettere a tacere le preoccupazioni da parte degli alleati più stretti», dice Noury.

E tra gli alleati più stretti rientrano gli Stati Uniti di Joe Biden. L’8 e 9 novembre il segretario di Stato americano, Antony Blinken, ha ricevuto il ministro degli Esteri egiziano Sameh Shoukry, in un incontro a cui hanno partecipato anche membri del dipartimento della Difesa statunitense. La delegazione discuterà questioni internazionali e regionali, tra cui diritti umani e cooperazione bilaterale in ambito economico, giudiziario, di sicurezza, educativo e culturale.

Non è un caso se il generale egiziano, nel presentare il progetto di Wadi al Natrun, ha spiegato di essersi basato al modello delle carceri statunitensi. Un ammiccamento lessicale che ha anche il sapore di una provocazione.

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