Martedì New York ha votato per eleggere il candidato democratico alle elezioni municipali del prossimo 2 novembre, colui o colei che con tutta probabilità diventerà il nuovo primo cittadino, visto che i repubblicani non hanno grandi chance di vittoria in una città con un elettorato a maggioranza democratica. Poiché nessuno dei candidati ha raggiunto il 50 per cento delle preferenze bisognerà attendere lo spoglio delle schede arrivate per posta e dei voti assegnati con le preferenze (per la prima volta quest’anno, gli elettori potevano indicare cinque candidati in ordine di preferenza). In testa c’è Eric Adams, un ex poliziotto afroamericano, presidente del distretto di Brooklyn, che promette di mettersi a lavoro per combattere il crimine in rapida ascesa da mesi. Adams è inseguito da due donne, la radicale Maya Wiley e la moderata Kathryn Garcia (entrambe arrivate dall’amministrazione uscente) mentre l’imprenditore Andrew Yang, dato per favorito all’inizio, si è ritirato dopo un risultato molto deludente.

La campagna elettorale si è svolta per molto tempo senza che noi newyorchesi riuscissimo a prestarvi troppa attenzione, distratti come eravamo dalla seconda ondata pandemica e dall’inizio della campagna vaccinale, e in un certo qual modo anche esauriti dal tanto parlare di politica di questo ultimo anno: dalle proteste per l’uccisione di George Floyd alle elezioni presidenziali, dai brogli elettorali invocati da Trump all’assalto a Capitol Hill. È solo nelle ultime settimane che siamo tornati a guardare da vicino la nostra città. Un anno fa certa stampa locale, nazionale e internazionale (anche italiana) dava New York per spacciata: una metropoli finita, ormai allo sbando. Questa città era stata per molti mesi l’epicentro del contagio (ad oggi più di due milioni di contagiati in tutto lo stato). La diffusione della pandemia aveva reso necessaria l’imposizione di un lungo lockdown e aveva innescato una crisi economica senza precedenti.

Avevamo vissuto il trauma dei 25mila morti (ad oggi 53mila in tutto lo stato di New York), delle centinaia di camion frigoriferi arrivati per contenere le salme dei deceduti, delle sepolture comuni di Hart Island per i cadaveri che nessuno reclamava, dell’esodo dei newyorchesi ricchi e delle lunghe file per ritirare gli assegni di disoccupazione nei quartieri più poveri. Avevamo vissuto le notti di protesta e di saccheggi che erano seguite alla morte di Floyd, il coprifuoco sulla città che qui non veniva imposto dalla Seconda guerra mondiale quando era sindaco Fiorello La Guardia, la chiusura dei ponti che collegano Manhattan agli altri distretti e al New Jersey. Avevamo vissuto il dramma delle migliaia di attività commerciali in bancarotta, un milione di disoccupati in città, le mense per la distribuzione dei pasti a cui andavano in tanti, non solo i poveri. Tanto era bastato ad alcuni osservatori (ma osservano veramente?) per dichiarare New York finita: i turisti scomparsi, i teatri di Broadway al buio, i negozi di Soho sprangati, i ristoranti falliti, i grattacieli vuoti, i bellissimi musei chiusi, il tempio dell’opera lirica in silenzio.

Rialzarsi

Ma io sapevo che New York sarebbe tornata. Se c’è qualcosa che i miei venti anni di vita americana mi hanno insegnato è che New York è dura a morire. Il giorno dopo l’11 settembre, i negozianti di Manhattan non hanno forse spazzato via la polvere dalle strade e riaperto le loro attività? E dopo la crisi finanziaria del 2008 e il crollo di Wall Street, la città – quella che aveva perso tutto, il lavoro, i risparmi, la casa – non si è forse rimboccata le maniche per tornare a produrre? New York cade ma sa rialzarsi, accusa il colpo ma lo restituisce, viene colta alla sprovvista e con inaudita violenza ma si riorganizza, crea nuove strategie, inventa soluzioni. Provate pure a scrivere alla prossima crisi che New York è finita, la storia degli ultimi vent’anni è qui pronta a smentirvi.

Detto questo, i newyorchesi si meritano una amministrazione migliore di quella che li ha gestiti negli ultimi otto anni e durante la pandemia. Il sindaco Bill de Blasio è stato un amministratore pieno di eccessi e di mancanze: dallo scontro tra ego titanici con il governatore Andrew Cuomo alla surreale corsa alla presidenza degli Stati Uniti, dalle incertezze sull’operato della polizia alla incapacità di dare risposte a coloro che più di altri sono stati travolti dalla crisi (tassisti, albergatori e ristoratori in testa, ma anche più di un milione di studenti delle scuole pubbliche, rimaste chiuse per gran parte dell’anno scolastico).

La città si è rialzata ed è tornata a vivere ma sono tanti ancora i problemi: 500mila disoccupati soprattutto tra le minoranze etniche; una scuola pubblica ancora segregata a cui il sindaco uscente ha voluto metter mano abolendo i voti (e il merito!) e creando un sistema di ammissione basato sulle lotterie; la criminalità e le sparatorie in crescita; la questione dei senzatetto “parcheggiati” in decine di hotel a Midtown che oggi sembra il Lower East Side “bombardato” del film Downtown 81, quello interpretato dal pittore Jean Michel Basquiat; e le tensioni etniche mai sopite. Ah, se fossero ancora vivi i grandi artisti e pensatori che hanno reso eroica questa città – Leonard Bernstein, James Baldwin, Shirley Chisholm, Marshall Berman – cosa ci direbbero? Probabilmente direbbero che a fronte di tanto ingegno e di tanta resilienza non abbiamo ancora imparato a prenderci cura gli uni degli altri.

Ieri mattina passeggiando lungo il fiume mi sono imbattuta in una insegnante di scienze con i suoi alunni. Insieme si prendevano cura delle colture di ostriche che sono state disseminate un po’ ovunque attorno all’isola di Manhattan, un progetto che coinvolge più di ottomila studenti. «Le ostriche depurano l’acqua, creano un habitat per milioni di specie viventi, sono una barriera contro l’erosione, riducono le inondazioni e l’impatto degli uragani sulla costa», mi ha detto l’insegnante mostrandomi una conchiglia rugosa. «Se tutti facessimo come le ostriche, le cose a New York andrebbero meglio». Ieri ho votato pensando alle ostriche che lavorano in silenzio per il bene comune – costruiscono, riparano, proteggono, depurano – è questo che i newyorchesi dovrebbero imparare a fare insieme, magari prima che arrivi la prossima crisi.

© Riproduzione riservata