Eutanasia di un partito? L’espressione è forse troppo forte, ma comincia a circolare. C’è chi teme davvero che il flop annunciato di Valérie Pécresse nel primo turno dell’elezione presidenziale possa portare al collasso i Républicains, il partito postgollista che soltanto pochi mesi fa, con un inatteso exploit alle elezioni regionali, era riuscito a riconquistare il primato dei consensi nello scenario politico francese. I segnali, in ogni caso, non sono confortanti.

Al di là dei sondaggi, che da qualche tempo mostrano ogni settimana una flessione nelle intenzioni di voto, ormai ferme sulla soglia del 10 per cento – quinto posto in classifica, in una gara dove contano solo i primi due –, a gettare nello smarrimento lo staff dei collaboratori della presidente dell’Ile-de-France è la progressiva liquefazione del sostegno per la candidata all’interno del partito che l’ha scelta.

Nicolas Sarkozy ha addirittura rifiutato l’invito a partecipare al suo comizio di chiusura a Parigi: evidentemente, l’ex presidente non vuole compromettere la propria immagine in un fiasco, sperando magari di poter essere in seguito chiamato a rimettere in piedi le macerie che il risultato del 10 aprile rischia di produrre.

E anche se, al penultimo tuffo, il gruppo parlamentare ha pubblicato un comunicato per dirsi compatto dietro Pécresse e «non solubile né nella maggioranza incarnata da Emmanuel Macron né nell’estrema destra incarnata da Éric Zemmour e Marine Le Pen», nella realtà le cose stanno altrimenti.

Tentazione Macron

Uno dei firmatari dell’accorato appello pubblicato da Le Figaro, l’ex sarkozysta Guillaume Larrivé, una settimana fa ha infatti dichiarato testualmente: «Se Valérie Pécresse sarà eliminata la sera del primo turno, mi impegnerò affinché Emmanuel Macron sia di nuovo presidente e i Républicains partecipino, all’Assemblea, alla costruzione di una nuova maggioranza», una coalizione destinata a «favorire una vera riconciliazione nazionale».

E qualche giorno prima il presidente dell’importante regione Provenza-Alpi-Costa Azzurra, Renaud Muselier, aveva annunciato la sua decisione di votare da subito Macron, non ritenendo la collega parigina «all’altezza della situazione».

Una sorta di preannuncio del probabile revival dell’ondata di defezioni che colpì il partito cinque anni orsono all’indomani dell’insuccesso del suo candidato presidenziale François Fillon, con la corsa di un gran numero di notabili a offrire i propri servigi a Macron e alla sua République en marche, nella speranza – in più di un caso ricompensata – di ottenerne in cambio seggi parlamentari e incarichi ministeriali.

Il primo naufragio

Da quel primo naufragio, i Républicains non si sono mai completamente ripresi. Alcuni dei loro esponenti di punta (fra i quali la stessa Pécresse) hanno sbattuto e poi riaperto la porta a seconda della linea assunta dai presidenti di turno, accusando questi ultimi di essersi spostati, a loro avviso, troppo a destra o troppo a sinistra. Gli altri si sono gettati in una guerra intestina dalle alterne fortune, che in alcuni casi ha assunto i tratti di una faida correntizia.

Il problema maggiore, in effetti, è il carattere profondamente eterogeneo di una formazione politica che ha a lungo pensato di poter vivere di rendita sull’eredità dell’immagine di grandeur lasciata dal generale de Gaulle e non si è mai preoccupata – o, in ogni caso, non è riuscita – a darsi un’identità precisa.

La coesistenza fra componenti liberali, conservatrici, democristiane e centriste innestatesi sull’originario ceppo gollista, che per decenni ha consentito di reclutare un ampio ceto di notabili di vario colore e provenienza (dai gruppuscoli neofascisti, che hanno espresso ministri come Alain Madelin, Gérard Longuet e Patrick Devedjian e dirigenti nazionali come Alain Robert, già capo carismatico di Ordre nouveau, fino alle associazioni cattolico-progressiste) radicati sui rispettivi territori e quindi di godere, anche in forme corruttive, delle risorse del governo locale, si sta oggi dimostrando una cruciale pietra d’inciampo nella campagna dell’aspirante all’Eliseo.

A supporter of French far-right presidential candidate Eric Zemmour holds a poster before a campaign rally on the Trocadero square Sunday, March 27, 2022 in Paris. France's first round of the presidential election takes place on April 10, with a presidential runoff on April 24 if no candidate wins outright. (AP Photo/Michel Euler)

Posizioni oscillanti

Data per sicura sfidante di Macron al ballottaggio fin dalla sera delle primarie che le hanno affidato la missione con circa il 61 per cento dei consensi degli iscritti, l’ex ministra dell’Insegnamento superiore e poi del Bilancio di Sarkozy ha infatti presto sofferto dell’incapacità di calarsi nel profilo di «candidata della destra» proclamato a lettere cubitali nel video con cui, su YouTube, aveva annunciato la sua incoronazione.

Da sempre attenta a professarsi moderata e centrista con sfumature progressiste, Pécresse si è subito trovata in imbarazzo nel far corrispondere il suo stile e le sue proposte agli umori di una gran parte dei suoi elettori potenziali, che già avevano chiarito i propri orientamenti sostenendo fino all’ultimo il suo rivale nel ballottaggio interno Éric Ciotti, portavoce di una destra “decomplessata” che reclama la priorità della sicurezza, dell’identità, della lotta all’islamismo e del contrasto all’immigrazione nell’agenda di governo e ha una visione etnica della nazione, espressa nella richiesta di sopprimere lo ius soli e nella riaffermazione delle radici cristiane della Francia.

Non volendo perdere l’appoggio di quanti condividono questa impostazione, ma puntando nel contempo a guadagnarsi i favori di una fetta dei delusi dall’esperienza macronista, la portacolori dei Républicains ha finito con l’assumere posizioni oscillanti, che hanno sollevato perplessità su entrambi i versanti.

E l’entrata in scena di Zemmour le ha complicato ulteriormente il cammino, obbligandola a chiarire la sua posizioni su tematiche rispetto alle quali aveva sempre preferito glissare – prima fra tutte il rischio della “grande sostituzione” della popolazione autoctona, uno spauracchio che si sta facendo strada in settori sempre più ampi della classe media di sentimenti conservatori.

French far-right presidential candidate Eric Zemmour delivers a speech at a campaign rally, in La Jacotiere, near the Mont-Saint-Michel, western France, Saturday, Feb.19, 2022. The two-round presidential election will take place on April 10th and 24th 2022. (AP Photo/Jeremias Gonzalez)

Il problema Zemmour

A lungo considerato una delle voci più in sintonia con quella destra “classica” che i Républicains rivendicano di rappresentare, ammiratore dichiarato del personaggio e dell’opera di de Gaulle, estimatore del cristianesimo malgrado la personale confessione ebraica, nostalgico della douce France non ancora sconvolta dai venti di ribellione del Sessantotto o dall’afflusso in massa di stranieri estranei alle sue tradizioni, Zemmour ha molte carte a disposizione per sedurre una parte dell’elettorato che Pécresse considerava già acquisito.

E non ne fa mistero, continuando a ripetere che la sua intenzione di fondo è riunificare, dopo averle sconfitte e costrette a implodere, le varie componenti della destra, Républicains e Rassemblement national in primis, per rifondare sotto il proprio impulso un autentico partito gollista, simile al Rpr di Jacques Chirac.

Stando alle più recenti rilevazioni demoscopiche, una simile ambizione appare fuori della portata del polemista. Non vi è dubbio però che la sua campagna ha fortemente contribuito a radicalizzare gli orientamenti e le aspettative di quella “maggioranza silenziosa” conservatrice e nazionalista che aveva confidato nella netta svolta a destra delle politiche di governo promessa a suo tempo da Sarkozy ed è stata delusa dal suo ripiegamento centrista, ma non se l’è mai sentita di mescolare i propri convincimenti con l’immagine sulfurea che l’“uomo nero” Jean-Marie Le Pen, con i suoi continui eccessi verbali, proiettava attorno a sé e che neppure la strategia di accorta decantazione messa in atto dalla figlia Marine è riuscita a dissipare.

Molto più raffinato nei modi, con la sua aria da topo di biblioteca e la sua figura mingherlina, così lontana dal corpulento vitalismo dell’ex leader del Front national – non a caso paragonato dai seguaci a un menhir, l’emblematico monumento trogloditico della sua Bretagna – Zemmour, malgrado le continue infrazioni a tutte le regole del politicamente corretto, appare a questo tipo di pubblico decisamente più frequentabile e rassicurante, e senz’altro molto più  credibile di Pécresse quando dice, come lei, di voler chiudere il capitolo del progressismo élitario dell’èra Macron e farla finita con l’egemonia intellettuale della sinistra nella società francese.

Comunque vadano a finire le cose, ma soprattutto se i voti ottenuti dal fondatore di Reconquête risulteranno più di quelli raccolti da Pécresse, è quasi certo che il verdetto del 10 aprile creerà nuove profonde crepe nella formazione politica che per decenni ha costituito, in simmetria con il partito socialista, uno dei due pilastri del sistema francese.

Allora si vedrà se la sfida di Zemmour potrà avere un futuro o se la versione francese della “balena bianca” centrista saprà, ancora una volta, ingoiare l’ingombrante ostacolo posto sulla sua rotta.

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