«Se lo desiderate, vi accogliamo come parte del più grande Paese al mondo, gli Stati Uniti». Parola di Donald Trump. L’ultimo invito del presidente Usa, va da sé, non riguarda migranti latinoamericani. In quel caso le barriere verbali e fisiche sono ben erette. Trump, invece, ieri si è rivolto alla popolazione groenlandese, che oggi va al voto per eleggere i 31 membri del parlamento di Nuuk.

Le elezioni in Groenlandia, un’isola con neanche 57mila abitanti, non sono mai state così seguite. Specie negli Stati Uniti. E la causa sono proprio le dichiarazioni dell’inquilino della Casa Bianca, desideroso di prendere il controllo dell’isola «in un modo o nell’altro». Minaccia che ha fatto ridere in maniera compiaciuta mezzo Congresso americano.

Il voto e l’indipendenza

La questione centrale attorno a cui ruota la tornata elettorale è l’indipendenza. E di conseguenza il ruolo che l’isola avrà nel mondo. La Groenlandia, infatti, nonostante un certo grado di autonomia conquistato, è ancora un territorio del Regno di Danimarca. La maggioranza della popolazione, circa l’80 per cento, è favorevole a staccarsi definitivamente da Copenaghen. Il problema, però, è il quando e il come.

Quasi tutti i principali partiti politici che si presentano alle urne sono concordi nel volere l’indipendenza. Il nodo che li divide, infatti, è sulle tempistiche: quando organizzare il referendum da presentare alla popolazione, il cui potenziale risultato positivo dovrà poi essere certificato dal parlamento danese?

A sinistra, il favorito partito rosso-verde Inuit Ataqatigiit, di cui è leader il premier groenlandese Múte Bourup Egede, vuole trovare una quadra entro la prossima legislatura. I socialdemocratici di Siumut, loro alleati, ritengono che la consultazione popolare dovrebbe avvenire subito dopo il voto.

Per Naleraq, prima forza di opposizione, i tempi dovrebbero essere più brevi possibile, mentre per Demokraatit va bene l’indipendenza, ma serve un approccio graduale. L’unico partito che vuole rimanere legato al regno danese è Atassut, formazione conservatrice che in realtà ha aperto a una maggiore autonomia della Groenlandia. «L’indipendenza è stata usata come concetto molto ampio da mobilitare in qualsiasi occasione, ma ora siamo a un punto in cui la popolazione vuole un piano più preciso», spiega a Domani Frank Sejersen, professore associato di Studi artici e groenlandesi dell’università di Copenaghen

L’anno scorso è stata istituita la Commissione dell’articolo 21, per stabilire il quadro in cui si potrà realmente attivare proprio quell’articolo 21 della legge sull’autogoverno della Groenlandia che permette di arrivare al referendum. La Commissione finirà il suo lavoro nel 2026, e per Sejersen solo allora sarà fornito «un modello con misure più concrete rispetto all’indipendenza».

Anche perché Nuuk dipende dai finanziamenti annuali che Copenaghen versa nelle sue casse: circa 580 milioni di euro all’anno che non possono venir meno senza prima una strategia. Il tema della sostenibilità, quindi, è fondamentale. E per la Groenlandia vuol dire soprattutto: se e come sfruttare i ricchi giacimenti minerari presenti sull’isola. Fino ad adesso le forze politiche hanno quasi sempre portato avanti una politica conservatrice, preservando ambiente e natura. D’altronde l’estrazione di materie prime, in un clima così complesso come quello dell’estremo nord, è particolarmente impattante.

Poi ci vogliono tempo e competenze. Il primo è un elemento da tenere in considerazione in caso di un’accelerazione verso l’indipendenza. Mentre le seconde devono essere ricercate esternamente. Ad ogni modo, Nuuk non potrà non trovare il modo di sfruttare i giacimenti. Oggi le fonti di reddito sono la pesca, che nel futuro - complice il cambiamento climatico e il riscaldamento delle acque - diventerà ancora più importante, e il turismo. Quest’ultimo, per una società con soli 57mila abitanti è anch’esso impattante a livello sociale.

La questione economica quindi è il primo ostacolo per l’indipendenza della Groenlandia. «A meno che non prenda in considerazione di rientrare nell’Ue», chiarisce a Domani l’analista geopolitico specializzato in paesi artici e baltici Gabriele Catania. «Perché a quel punto potrebbe ottenere i fondi europei per le aree periferiche e in via di sviluppo. E sarebbe l’unico modo per Nuuk di ottenere una piena sovranità senza esporre il fianco alle grandi potenze, in primis gli Usa», spiega ancora Catania.

L’ingerenza di Donald

Stati Uniti che continuano a premere con Nuuk. Trump ha ipotizzato di comprare l’isola, di farla diventare parte degli Usa, ma è stato respinto dalla prima ministra danese Mette Frederiksen con un «decidono i groenlandesi» e dal primo ministro Egede con un «non siamo in vendita». D’altronde, secondo un recente sondaggio, l’85 per cento della popolazione dell’isola non vuole entrare negli Usa.

Ma le spinte statunitensi «sono un campanello d’allarme sia per la Groenlandia, perché ora le sue autorità devono essere molto precise su cosa intendono per indipendenza, sia per la Danimarca, perché fa rendere conto a Copenaghen di non aver investito abbastanza capitale politico nelle relazioni con Nuuk», racconta ancora Sejersen.

Washington, che mantiene una base militare in Groenlandia, ha interessi securitari ma anche economici. I giacimenti di terre rare, infatti, fanno gola alle aziende americane. Indicativo l’ultimo messaggio di Trump, rivolto ai groenlandesi: «Siamo pronti a investire miliardi di dollari per creare posti di lavoro e farvi ricchi». Vista l’incertezza economica dell’isola, Nuuk non è insensibile al tema. Pur chiedendo rispetto, il premier Egede ha infatti aperto alla possibilità di «fare affari» con gli Usa. L’unica parola che sembra capire Trump.

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