Un passaggio storico per Estonia, Lettonia e Lituania che, da domenica 9 febbraio, non dipendono più dalle forniture energetiche della Russia. Vent’anni dopo l’adesione alla Nato e all’Unione europea, i tre paesi hanno definitivamente troncato ogni collegamento con la rete energetica di Mosca, tassello decisivo per l’autonomia della regione.

L’idea di avviare la sincronizzazione dei propri sistemi elettrici con quelli dell’Europa continentale sfruttando la sponda strategica della Polonia ha cominciato a prendere forma dopo l’annessione della Crimea, nel 2014, accelerando ulteriormente dallo scoppio del conflitto in Ucraina.

«Abbiamo raggiunto l'obiettivo per cui ci siamo battuti per tanto tempo, e ora abbiamo finalmente il controllo della nostra rete energetica», ha detto il ministro dell’Energia lituano, Zygimantas Vaiciunas, sottolineando la volontà di privare la Russia della «possibilità di usare il sistema elettrico come strumento di ricatto geopolitico». 

«Oggi colleghiamo gli sati baltici alla rete elettrica dell'Europa continentale – ha detto la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen – Stiamo tagliando gli ultimi legami rimasti con la Russia. Finalmente liberi da minacce e ricatti. Questo è un giorno storico».

Battaglia navale

Al largo del Baltico, però, la tensione con la Russia rimane altissima dopo che nelle scorse settimane si sono verificati danni a cavi elettrici e gasdotti, con forti ripercussioni sulla disponibilità energetica e sulle telecomunicazioni. Navi fantasma, spionaggio sottomarino, sabotaggi misteriosi e scambi clandestini di merci a largo delle acque internazionali.

Quella che sembra la trama di un action movie al tempo della Guerra fredda, altro non è che la cronaca di una tensione ogni giorno sempre più alta nei mari d’Europa che risponde al nome di guerra ibrida.

Come in una sfida a battaglia navale, i paesi europei, “capitanati” dal Regno Unito, sono schierati contro la shadow fleet della Russia, la flotta fantasma riconducibile a Mosca. Centinaia di navi mercantili spesso fatiscenti, battenti bandiere di stati poco regolamentati come Panama e le Isole Cook oppure appartenenti a società difficili da rintracciare, navigano davanti alle coste del Vecchio Continente aggirando così le sanzioni sul prezzo del petrolio imposte a seguito dell’invasione dell’Ucraina e generando un guadagno mensile che sfiora i 12 milioni di euro.

Oppure, ed è questo l’aspetto più spinoso dell’intera vicenda, vengono ritenute responsabili di attività di spionaggio o danneggiamento contro l’infrastruttura critica europea, attraverso la quale viaggiano energia e dati sensibili.

Navi fantasma

Era il giorno di Natale quando le autorità finlandesi hanno segnalato la rottura del cavo sottomarino Estlink 2. Il colpevole? La petroliera cinese Eagle S, prototipo perfetto della flotta ombra russa.

Stando a quanto ricostruito dal Guardian la nave, attualmente ancorata nel porto di Porvoo, non lontano da Helsinki, ha cambiato nome ben tre volte e ora naviga sotto il vessillo delle Isole Cook, pur essendo di proprietà di una società di Dubai ma gestita da un’altra società con sede in India.

A bordo un capitano georgiano comanda un equipaggio per metà indiano e per metà caucasico. Secondo le stime di S&P Global, le navi fantasma intente a fare gli interessi di Mosca sarebbero quasi 600, ma il numero di imbarcazioni potenzialmente implicate nelle attività illecite per bypassare le sanzioni potrebbero sfiorare le duemila unità e agirebbero non soltanto nelle acque settentrionali, ma anche davanti le coste di Grecia e Nord Africa, al largo di Ceuta.

Da un punto di vista tecnico, queste navi disattivano i sistemi di tracciamento per poi effettuare trasbordi in mare aperto, lontano dai controlli portuali, attraverso il cosiddetto ship-to-ship transfer (Sts) che consente anche di miscelare carichi diversi mascherandone così la provenienza.

L’alterazione dei documenti sui carichi e la stipula di contratti assicurativi con paesi non europei (per lo più Cina, India e Turchia) fanno poi il resto, permettendo a Mosca di tenersi al di sotto del price cap di 60 dollari al barile imposto dalle sanzioni occidentali, recuperando però il profitto attraverso l’applicazione di tariffe di trasporto gonfiate o premi consegna.

Non solo Russia

Di recente il Consiglio dell’Unione europea ha inserito tra le sanzioni alla Russia il divieto di ingresso in porti Ue per le navi della flotta fantasma, evidenziando anche le «forti ripercussioni ambientali per le regioni del Nord» provocate dalle condizioni disastrose in cui versano queste imbarcazioni.

Esattamente com’è successo nei giorni scorsi sulle coste settentrionali della Germania, dove un guasto al motore ha costretto la petroliera Eventin ad arenarsi, con i suoi 274 metri di lunghezza e un carico di cento tonnellate di petrolio.

C’è poi il caso della nave da ricerca Yantar, intercettata dalla Marina britannica mentre stava effettuando una «mappatura delle infrastrutture sottomarine critiche del Regno Unito» a sud della Cornovaglia: il ministro della Difesa, John Healey, non ha usato mezzi termini nel definirla una «nave spia manovrata da Putin» nel tentativo di minacciare la rete che trasporta petrolio, gas, elettricità e Internet.

A ben guardare, però, la Russia sembra non agire da sola. A novembre sono stati recisi due cavi in fibra ottica che collegano Svezia, Lituania, Finlandia e Germania. Una circostanza a dir poco equivoca, dal momento che il danneggiamento è avvenuto in due giorni consecutivi all’interno di una superficie di appena 10 metri quadrati: i sospetti, in questo caso, si sono concentrati sulla nave cinese Yi Peng 3, salpata dal porto russo di Ust-Luga affacciato sul Baltico.

Mosca, nonostante le sanzioni Ue, può contare su numerosi sbocchi sul mare collocati nell’area di San Pietroburgo (Vyborg, Primorsk, Vysotsk) e nell’exclave di Kaliningrad, tra Polonia e Lituania. A seguito dell’incidente, la nave cinese è rimasta nel Baltico per altri trenta giorni senza che le autorità svedesi potessero salire a bordo per partecipare all’indagine nel frattempo avviata da Pechino, senza riuscire ad appurare eventuali corresponsabilità da parte della Russia rimaste dunque in bilico.

Regno Unito e Nato

Nel tentativo di arginare i pericoli per le infrastrutture nevralgiche occidentali, il Regno Unito ha inaugurato il 2025 con l’avvio della missione Nordic Warden, nell’ambito della partnership militare nordeuropea Joint Expeditionary Force.

Al monitoraggio costante e in tempo reale delle attività nel mar Baltico si affianca il calcolo dei rischi legati all’ingresso di imbarcazioni potenzialmente pericolose in aree di interesse strategico, effettuato attraverso un sofisticato sistema di intelligenza artificiale.

Londra però non è l’unica ad aver mobilitato le proprie navi: al largo dell’Estonia la Nato ha infatti riunito la flottiglia Baltic Sentry, composta da una fregata e una nave da ricerca olandese, un dragamine tedesco e un altro battente bandiera francese.

La task force, rinominata la «telecamera di sicurezza del Baltico», è affidata al belga Erik Kockx e ha come compito principale il monitoraggio di tutto quel che accade nello specchio d’acqua settentrionale: «Nessuno potrà intraprendere alcuna azione contro le infrastrutture sottomarine critiche senza farsi vedere e senza provocare una nostra reazione adeguata», ha assicurato il comandante.

«Qualsiasi nave che lasci San Pietroburgo saprà di essere seguita, e chiunque avrà intenzione di intraprendere azioni illegali ci penserà due volte»: il monito della Baltic Sentry infiamma ulteriormente le gelide acque del nord Europa, già da tempo incandescenti.

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