Il presidente della Turchia, Recep Tayyip Erdogan, è pronto ad alzare i salari minimi mensili del 50 per cento a 4.250 lire nel 2022 da 2.826 nel 2021 per affrontare le conseguenze sociali del nuovo taglio dei tassi di interesse che darà inevitabilmente nuova forza all’aumento dei prezzi, che corre già al 21 per cento annuo.

Così facendo il presidente, che guida una nazione di 84 milioni di abitanti di cui il 40 per cento dei dipendenti accede al salario minimo, crea una macchinosa procedura di adeguamento dei salari simile alla scala mobile italiana degli anni Ottanta rimasta in vita fino al referendum abrogativo voluto da Craxi del 1985, un’illusione ottica posta in un quadro macroeconomico di una continua spirale di rincorsa tra inflazione galoppante, aumenti salariali e nuovi aumenti dei prezzi al consumo.

L’unica cosa da fare, cioè aumentare il costo del denaro, Erdogan si rifiuta di farla perché crede che i tassi bassi aiutino sempre la crescita e l’export. Non è così. Anzi, così facendo farà deragliare il Pil del paese (quasi 800 miliardi di dollari), rischiando una crisi finanziaria con conseguente corsa dei risparmiatori agli sportelli bancari prima dell’inevitabile blocco dei capitali per evitare la fuga dei risparmi all’estero.  

Jason Tuvey, economista della Capital Economics, ritiene possibile un aumento dell’inflazione al 30 per cento nei prossimi mesi.

La lira in caduta

In questo scenario da incubo la lira turca è ancora in caduta libera dopo il nuovo taglio dei tassi di interesse deciso dalla banca centrale, da mesi allineata forzatamente alle politiche del presidente Erdogan.

La valuta ha ceduto il 4,36 per cento nei confronti del dollaro ed è scambiata a oltre 15 lire per un dollaro, con un nuovo minimo a 15,51. Dall'inizio dell’anno il biglietto verde ha più che raddoppiato il proprio valore in lire.

Secondo le attese la Banca centrale turca ha tagliato il tasso di riferimento di 100 punti base al 14 per cento nonostante un’inflazione ormai oltre il 21 per cento.

La svalutazione della lira turca ha toccato nuovi record negativi rispetto al dollaro e all’euro (17 lire) dopo l’ennesima decisione di politica monetaria che alimenta la dinamica dell’inflazione.

Il turnover al ministero

Intanto, con un decreto emesso a mezzanotte dall’ufficio del presidente Erdogan, sono stati licenziati e sostituiti i viceministri del Tesoro Sakir Ercan Gul e Mehmet Hamdi Yildirim.

Solo due settimane fa anche il titolare del dicastero dell’Economia, Lutfi Elvan, era stato sostituito dopo aver rassegnato le dimissioni a poco più di un anno dalla nomina arrivata in seguito alla decisione del precedente ministro, il genero di Erdogan Berat Albayrak, di lasciare il posto.

Alle 14 ora locale (mezzogiorno in Italia) la Banca centrale turca ha comunicato una nuova decisione rispetto alla politica monetaria e, come previsto, ha effettuato un taglio di 100 punti base che ha portato i tassi al 14 per cento.

Da settembre, l’Istituto bancario centrale della Mezzaluna sul Bosforo ha tagliato il tasso di interesse di riferimento di 400 punti base provocando una svalutazione record della lira turca. L’indebolimento della moneta nazionale ha portato a un aumento dei prezzi al consumo diffuso.

Le manovre della Fed

Come se non bastasse, la Federal Reserve americana, a causa dell’aumento dell’inflazione giunta a novembre al 6,8 per cento negli Usa,  ha dichiarato che porrà fine ai suoi acquisti di obbligazioni dell’era della pandemia a marzo e ha segnalato tre aumenti del tasso di interesse di 25 punti base nel 2022.

Mossa che probabilmente (unita all’aumento dei tassi anche della Bank of England) avrà riflessi negativi per le attività orientate al rischio, tipiche dei mercati emergenti come la Turchia. Ankara, che soffre di un deficit cronico delle partite correnti, potrebbe essere abbandonata dagli investitori internazionali mettendo in grave difficoltà le aziende turche indebitate in valuta forte, ma che incassano i ricavi in lire turche.

Cattive notizie anche per gli investitori della Borsa di Istanbul che sono cresciuti in un anno da 1,9 milioni a 2,4 milioni e che hanno investito in azioni nel tentativo di sfuggire alla svalutazione valutaria.

«Quando la valuta è debole e i tassi sono bassi, le azioni si distinguono praticamente come una delle poche classi di attività interessanti rimaste per proteggere i risparmi per i locali», ha detto recentemente Burak İşyar, il capo della ricerca azionaria presso Icbc Turkey Investment. Un tentativo per difendere il potere d’acquisto, ma fino a quando sarà un utile scudo questo ricorso all’investimento in azioni?

© Riproduzione riservata