La caccia ai curdi di Recep Tayyip Erdogan non si ferma. Dopo aver chiesto a Svezia e Finlandia di estradare almeno 30 persone appartenenti alla minoranza perseguitata dal presidente tanto in patria quanto all’estero, il capo di stato turco ha minacciato di lanciare una nuova operazione contro la Siria del nord. L’obiettivo è creare una “zona sicura” al confine tra i due paesi e mettere fine alla presenza curda nella parte occidentale della Siria, considerata da Erdogan una minaccia per la sicurezza della Turchia.

A livello pratico, il presidente punta ad occupare le città che si trovano tra Jarabulus e Ayn Isa, ossia tra le due aree già controllate da Ankara direttamente o con l’aiuto di miliziani jihadisti riunitisi sotto l’insegna di Hayat tahrir al sham - ex al-Qaida - e dell’Esercito libero siriano. L’operazione comporterebbe anche la presa di Kobane, città simbolo della resistenza contro l’Isis e più volte finita nel mirino della Turchia.

A pagare il prezzo di una nuova offensiva contro il nord della Siria, la quarta dal 2016, non sarebbero però solo i curdi del Rojava. Una simile mossa avrebbe ripercussioni anche sulle trattative per l’adesione di Svezia e Finlandia nella Nato e sulla stessa Alleanza, con evidenti vantaggi per Mosca.

Consenso interno

Ciò che spinge il presidente turco a lanciare un’operazione militare oltreconfine è prima di tutto il bisogno di risalire nei sondaggi. La crisi economica e l’aumento dell’inflazione, arrivata al 70 per cento ad aprile, stanno mettendo a dura prova il successo del partito di Erdogan a solo un anno dalle prossime elezioni parlamentari e presidenziali. Da qui la scelta del presidente di giocare la carta curda e quella dell’immigrazione, due dossier che Erdogan riuscirebbe ad unire con la conquista di nuovi territori in Siria.

A inizio maggio, il capo di stato turco aveva annunciato un piano per il ricollocamento di un milione di rifugiati siriani nella zona di Idlib, nota roccaforte del gruppo jihadista Hts ancora fuori dal controllo del governo di Damasco e in cui la moneta locale è stata sostituita da tempo con la lira turca. Il progetto prevede la costruzione di case e servizi per ospitare quei siriani che volontariamente sceglieranno di tornare in patria, anche se non nella zona di reale provenienza.

Il piano però è stato fortemente criticato dal presidente Bashar al-Assad e per poterlo realizzare il governo turco avrà bisogno di nuovi fondi europei per la gestione dell’immigrazione. Un argomento da tempo al centro delle discussioni tra Ankara e Bruxelles e che dovrebbe tradursi nello stanziamento di nuovi finanziamenti comunitari nei prossimi mesi. 

Se Erdogan riuscisse ad ampliare la zona sotto il proprio controllo avrebbe maggiori opportunità di portare avanti il progetto di ricollocamento dei rifugiati siriani, riuscendo allo stesso tempo ad allontanare i curdi dalla fascia di confine. Grazie a questa opera di ingegneria demografica, verrebbe creata una zona cuscinetto a maggioranza araba che libererebbe Erdogan dall’incubo dei curdi al confine e ridurrebbe anche il numero degli immigrati presenti in Turchia. Con vantaggi elettorali importanti.

L’allargamento della Nato

Nel definire le Forze democratiche siriane e l’Amministrazione autonoma del Rojava una minaccia per il proprio paese, Erdogan continua anche a portare avanti una criminalizzazione indiscriminata dalla galassia curda. In Turchia, tanto i curdi siriani che hanno combattuto conto l’Isis quanto i membri del Pkk, il partito dei lavoratori, sono ufficialmente designati come terroristi, mentre sia Usa che Ue continuano a distinguere tra le due entità. Una scelta che Erdogan non ha mai approvato e che da anni condiziona le relazioni di Ankara tanto con Washington quanto con i paesi europei.

La questione è tornata al centro del dibattito internazionale dopo lo stop imposto dal presidente turco all’adesione di Svezia e Finlandia alla Nato, giustificato in virtù dei rapporti che i due governi scandinavi intrattengono con il Pkk e l’Amministrazione autonoma del Rojava. In cambio del proprio assenso, indispensabile per l’allargamento dell’Alleanza, Ankara pretende che Helsinki e Stoccolma prendano in considerazione le preoccupazioni turche sulla minaccia terroristica che i curdi - senza distinzioni - rappresentano.

I due paesi scandinavi, quindi, dovrebbero interrompere ogni rapporto con il Rojava e il Partito dei lavoratori ed estradare un totale di trenta persone ricercate in Turchia per terrorismo, accusa generalmente mossa dalla magistratura turca contro chiunque osi sfidare il presidente Erdogan. In questo elenco in un primo momento era finita anche Amineh Kakabaveh, parlamentare svedese originaria del Kurdistan iraniano.

Ma tra le richieste della Turchia vi è anche la fine dell’embargo sull’export militare imposto da Svezia e Finlandia nel 2019 in risposta all’operazione Sorgente di pace, lanciata dalla Turchia contro il Rojava. Una richiesta su cui non è ancora stato trovato un accordo e che è diventata ancora più difficile da soddisfare per i paesi scandinavi nel momento in cui Ankara minaccia di lanciare una nuova offensiva militare proprio contro i curdi siriani.

La Nato

Ma la scelta di Erdogan di attaccare il Rojava rischia di complicare anche le relazioni con il presidente americano Joe Biden, limitandone le capacità di soddisfare le altre richieste avanzate dalla Turchia in cambio del suo sì all’allargamento della Nato. Sul tavolo vi è anche la vendita di 40 caccia F16 e di 80 kit di ammodernamento per quelli già in dotazione all’aviazione turca, ma perché ciò avvenga serve il via libera del Congresso.

Biden sta cercando di convincere i deputati, ma si tratta di un compito non semplice considerando lo stato dei rapporti tra Usa e Turchia. Inoltre, a complicare ulteriormente la situazione ha contribuito di recente il premier greco Kyriakos Mitsotakis, che nel suo discorso al Congresso ha descritto la Turchia come una fonte di instabilità, chiedendo quindi di bloccare ogni concessione sugli F-16.

In mancanza di un accordo tanto con gli Usa quanto con Svezia e Finlandia, Erdogan sembra aver deciso di puntare su una nuova operazione contro il nord-est con il tacito consenso dell’occidente. Non a caso la reazione di Washington all’annuncio dell’attacco è stata modesta, con la Casa Bianca che si è limitata a dirsi molto preoccupata per le parole del presidente Erdogan. Una formula generica e di certo non sufficiente per dissuadere il capo di Stato turco dal muovere contro i curdi.

Ma per portare avanti i propri piani, il presidente ha anche bisogno dell’assenso di Mosca, alleata di Damasco. La Russia è presente militarmente in Siria e ha firmato più di un accordo con la Turchia nel corso degli anni per la gestione delle aree sotto il controllo delle forze filo-turche, ma che il regime siriano punta a riconquistare.

Questa volta però Mosca potrebbe accontentare il presidente turco per incrinare il fronte della Nato, costringendo gli alleati a mettere ancora una volta in discussione la fedeltà di Erdogan all’Alleanza dopo che la mancata imposizione di sanzioni e il no all’adesione di Svezia e Finlandia avevano già fatto sorgere dei dubbi sull’affidabilità di Ankara.

Con questa mossa, il presiedente turco vuole invece capire se le sue preoccupazioni sulla minaccia terroristica rappresentata dai curdi sono prese davvero in considerazione dalla Nato, imponendo agli alleati atlantici la sua agenda.

Un comportamento di certo non inusuale per Erdogan, che ha più volte risposto ai problemi delineatisi in ambito internazionale alzando la posta in gioco e sfidando gli altri paesi ad intervenire per fermarlo o a chiudere un occhio sulle sue azioni. Come accaduto in Siria, Libia e in Nagorno. Questa volta però la posta in gioco è più alta e la posizione di equilibrio tra Russia e Nato assunta da Erdogan fin dall’inizio del conflitto si fa sempre più difficile da mantenere.

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