Una volta c’erano il Piano Marshall e Mickey Mouse, oggi la guerra dei dazi e l’abbraccio a Putin: sì, la vera rivoluzione americana del Novecento è l’aver costruito la comunità che – nel bene e nel male – ha tenuto insieme il mondo come lo conoscevamo. È questa comunità globale - fondata sull’idea dell’equilibrio dei poteri e sul soft power - che il presidente americano sta facendo a pezzi. Come dice anche Springsteen: il tycoon sta uccidendo non solo l’idea che l’America ha di sé – il fondamento dell’egemonia Usa, la sua forza, il suo storytelling - ma la stessa anima dell’Occidente
Fuori dal mondo distopico di Donald Trump, la vera rivoluzione americana è l’aver saputo costruire la comunità di valori che – nel bene e nel male – ha tenuto insieme buona parte del Ventesimo secolo e un pezzetto del Ventunesimo.
È quella cosa che nel suo complesso abbiamo voluto chiamare Occidente, una comunità percorsa anche da oscurità e molte scie di sangue, beninteso, nondimeno una sorta di villaggio globale di regole più o meno condivise.
C’erano, legate a questa costellazione, l’Onu e la Nato, strumenti di governo mondiale assolutamente perfettibili, ma comunque forme di bilanciamento dei poteri e del potere, studiate per far sì che nessuno – nessun paese e, idealmente, nessun individuo – fosse completamente nudo dinnanzi alla legge del più forte.
Costruire sulle macerie
Certo, era una comunità costruita sulle macerie ancora fumanti della Seconda guerra mondiale, con il Piano Marshall, per esempio, voluto per rimettere in piedi, a cominciare dagli sconfitti, il Vecchio Continente devastato dal conflitto e dai fascismi, e persino con l’abominio delle bombe di Hiroshima e Nagasaki in chiave d’affermazione di un’egemonia globale: sta di fatto che l’America era riuscita a tenere insieme una grande fetta di mondo non solo sulla base dell’esercizio del potere, ma anche di un sistema di valori complesso, per quanto spesso contraddittorio (e certo non sempre limpido).
Eppure il cosiddetto “eccezionalismo americano” è una dimensione culturale ad amplissimo spettro: loro, gli americani, lo chiamerebbero “storytelling”, sicuramente è anche una narrazione che – almeno sin dagli albori del Novecento – ha saputo penetrare nel subconscio collettivo del mondo intero, una narrazione che è andata ben oltre la semplice produzione culturale in quanto tale.
Un tempo circolava una battuta secondo la quale l’Unione sovietica è crollata – dopo lo sbriciolamento del Muro di Berlino – perché non aveva a disposizione Mickey Mouse, il rock ’n’ roll e McDonald’s. In un certo senso la battuta coglie nel segno: per quanto paradossale e talvolta favolistico, lo storytelling americano ha incrociato, molto spesso, il desiderio di identità e di libertà delle persone alle più distanti latitudini del pianeta, a diventarne l’espressione emblematica.
Non è poi così banale dire che ai governi dietro la cortina di ferro è venuto meno il terreno sotto i piedi anche perché le folle desideravano il rock, le superstar americane, i jeans, gli hamburger: elementi di una costruzione mitologica che ha prevalso su tutte le altre. Non tanto e non solo perché proveniente da un paese egemone, ma perché aveva – appunto – i tratti distintivi di una comunità globale e globalizzata, vera novità reale del mondo almeno dagli anni Cinquanta in poi. È anche (e forse soprattutto) contro questo magma di desideri, aspirazioni e soft power che il cosiddetto socialismo reale è andato a sbattere.
Molto spesso la cultura popolare si è affermata in opposizione ai governi, scavalcando il potere: qui il punto è che il potere americano quasi sempre è riuscito ad accettarla, quest’opposizione, o se non altro a introiettarla, e che ne è stato condizionato, talvolta positivamente.
È una specie di flusso che va dal cinema alla lotta antimaccartista, dalla musica degli anni Sessanta ai movimenti per i diritti civili e alle proteste contro la guerra del Vietnam, che va dal grande giornalismo – del quale i Pentagon Papers o l’inchiesta del Watergate sono solo la punta dell’iceberg – all’eccellenza delle grandi università americane, la quale ha permeato non solo il pensiero liberal, ma è arrivata a strutturare proprio quel “soft power” che ha caratterizzato la leadership mondiale degli Stati Uniti attraverso i decenni.
Certo che l’America che abbiamo conosciuto ha compiuto anche atti infami, ma ha saputo inglobare differenze, pensiero dissidente, lotta per i diritti e globalizzazione aperta. In questi giorni circola molto l’ultimo discorso da presidente del repubblicano Ronald Reagan («Puoi andare a vivere in Francia, ma non puoi diventare francese. Puoi andare a vivere in Germania, in Turchia o in Giappone, ma non puoi diventare tedesco, turco o giapponese. Ma chiunque, da qualsiasi angolo della Terra, può venire a vivere in America e diventare americano»): al di là della retorica da film, è il riconoscimento dell’America come terra di migranti quale suo carattere costitutivo, quello del “popolo fatto di popoli”, che si è ulteriormente rafforzato dopo gli orrori dei nazionalismi fascista e nazista fino al 1945.
La scure di Donald
È esattamente questa comunità – politica, culturale, narrativa, sociale, una comunità che va ben oltre i confini degli States – la “cosa” che Donald Trump sta distruggendo, pezzo per pezzo. Lui ne è una violentissima deformazione distopica: ed è una controrivoluzione, quella che si è abbattuta in suo nome sul “villaggio globale”, che rischia di avere effetti di lungo periodo e infliggere ferite profonde sui modi dello stare insieme sul globo terracqueo.
Prendiamo la guerra mondiale dei dazi, apparentemente delirante: al di là degli eventuali accordi che alla fine (forse) saranno raggiunti, le tariffe dalle percentuali fantascientifiche hanno creato un’instabilità e un’incertezza globale le cui conseguenze vanno ben oltre la pur caotica dimensione economica.
Provocano uno spiazzamento costante non solo degli investitori, ma soprattutto dei governi (alleati e no), i quali si vedono sottrarre tutti gli strumenti classici e le regole della diplomazia, della contrattazione internazionale, della stabilizzazione dei processi decisionali globali. Inutile dire dell’incredibile zig-zagare trumpiano sulla pelle dell’Ucraina, che fa dire a un moderato assoluto come il neocancelliere tedesco Friedrich Merz di esser rimasto «scioccato» dopo la conversazione avuta con Trump insieme agli altri “volenterosi” (e qui ci sarebbe solo da aggiungere che forse avrebbe fatto bene a ricordarsi l’appello agli europei di Angela Merkel ai tempi del primo mandato presidenziale del tycoon: «Siamo soli, l’America non c’è più»).
In questi giorni il tema della “comunità americana” torna sempre più spesso. Ne parlano Bernie Sanders e Alexandria Ocasio-Cortez nel loro tour, non stancandosi di spiegare che l’America “reale” – quella multietnica sin nelle ossa, quella delle “mille Americhe”, quella di una realtà sociale infinitamente più variegata e diversa rispetto al determinismo Maga – non è quella di Donald Trump.
Quella di Trump è un’America inferocita da talent show che oggi cerca di sradicare la maggioranza dei valori condivisi, e lo fa con tutti gli strumenti tipici dell’autoritarismo: dalla deportazione illegale di stranieri all’assoggettamento delle università alla lotta alla magistratura, al tentativo di distruggere le fondamenta su cui poggiano la conoscenza, la scienza, la cultura, tipicamente nel mirino delle autocrazie (sì, certo, fin troppo facile ricordare i roghi di libri dei nazisti o la “rieducazione dei dissidenti” nella Romania di Ceausescu o nella Cina maoista, ma tant’è).
Quando Bruce Springsteen – insultato da Trump, come anche le popstar Taylor Swift e Beyoncé, perché hanno osato esprimersi contro di lui – dice «Non c’è gioia nella Casa Bianca di adesso», intende proprio questo: si chiede, il vecchio rocker, che fine abbiano fatto i giardini di Michelle Obama, i tè della famiglia Bush, le gite in barca dei Kennedy. Vuole dire che quelli erano presidenti in qualche modo espressione di quella comunità globale che l’America globale ha costruito nel Novecento.
Da Capitol Hill all’Usaid
Il Trump che azzanna tutte le regole, quello che abbatte la sua scure sugli aiuti internazionali e piccona tutte le forme di governo globale, dall’Organizzazione mondiale della sanità all’Alleanza atlantica, quello che perdona gli assaltatori di Capitol Hill, quello che mina gli accordi internazionali e divide i suoi stessi cittadini distinguendo quelli a lui leali e chi si oppone a lui, gli americani “veri” (quali?) dagli stranieri (con l’eccezione di Musk), quello che scava nuovi abissi verso gli alleati europei e costruisce ponti verso dittatori, oligarchi, autocrati e sceicchi, è lo smembratore della comunità che ha tenuto insieme il mondo come lo conoscevamo.
Trump è il distruttore del villaggio globale, è una cesura che spacca in mille pezzi non solo l’idea che l’America ha di sé – il fondamento dell’egemonia americana, la sua forza – ma la stessa anima dell’Occidente.
© Riproduzione riservata