L’inversione di significato dell’ideale femminista su cui ha posto l’accento Giorgia Serughetti su questo giornale è fra i fenomeni culturali e politici di maggiore interesse del dibattito pubblico degli ultimi anni. Già nelle precedenti elezioni, dove raggiunse ancora il ballottaggio, Marine Le Pen si era erta a paladina dei diritti delle donne francesi contro l’invasione oscurantista islamica. Il fatto è che si ha del femminismo un’erronea immagine monolitica, come fosse sempre uguale nel tempo.

Come tutti i grandi movimenti culturali è, invece, in perenne cambiamento, modellato sulle pieghe della storia. Dopo la stagione delle suffragette, a cui è seguito il pensiero della differenza dove spiccano i nomi italiani di Luisa Muraro e Adriana Cavarero, la spinta al cambiamento è oggi offerta dal femminismo decoloniale. Un movimento che proprio nel mondo francofono trova le maggiori protagoniste, a cominciare da Houria Bouteldja, franco-algerina tra le leader del «Partito degli indigeni della Repubblica», associazione autodefinitasi «antirazzista e decoloniale» nata nel 2005.

Negli anni delle proteste pre-Covid, confluito in quel grande maremagnum che ha preso il nome di «Gillet gialli». Il femminismo decoloniale ruota attorno al rifiuto del modello femminile bianco, sempre più percepito come longa manus dell’imperialismo occidentale. A questo contrappone la concreta lotta «a fianco» delle donne. In sostanza, dovunque ci sia una donna che richiede autonomia rispetto alle varie forme di patriarcato la si sostiene senza imporre alla sua protesta il fine raggiunto dalle battaglie femministe occidentali.

Le donne saudite richiedono di poter guidare, o di poter girare all’aperto senza essere accompagnamento? Le si sostiene senza richiedere loro di adeguarsi al percorso tracciato dalla storia europea. In questo modo il femminismo è entrato nel più ampio conflitto politico della nostra epoca, diventando facile preda del neonazionalismo che si è erto a difensore delle donne occidentali contro la legittimazione di modelli femminili, che sembrano riflettere i contesti da cui si sono emancipate solo pochi decenni fa. Una frattura interna al mondo femminista che si è ripetuta identica in altri contesti. Oltre le femnazionaliste, abbiamo visto nascere l’omonazionalismo, in cui oggi si riconosce parte del mondo gay. Come, del resto, poter approvare l’ingresso in Europa di ideologie repressive da noi espulse dallo stesso dibattito pubblico?

In parte, cosa analoga è successa in ambito ebraico, dove le comunità si sono divise fra il sostegno all’islam europeo in nome di una comune battaglia per la libertà religiosa e identitaria e l’adesione alle forze politiche che hanno denunciato l’ingresso di ideologie antisemite, non mancando di sostenere Israele nella sua battaglia per la sopravvivenza in Medio Oriente. In questo strano gioco di coincidenza degli opposti si sono, però, trovati a fianco agli eredi dei partiti fascisti del dopoguerra, che non hanno mancato di stringere alleanze territoriali con movimenti estremisti.

Il connubio italiano Lega-Casa Pound o Lealtà azione è solo un esempio di quanto successo in tutto il continente. Il vero problema è che ciò che è oggi messo in discussione dalla storia è il modello di emancipazione europeo, che proprio nella Rivoluzione francese trova la sua immagine iconica. Davvero difficile destreggiarsi in questo ginepraio. Difficile capire dove fissare il limite fra cosa può essere consentito e cosa no. Difficile capire come rimodulare le battaglie che hanno segnato la storia occidentale degli ultimi due secoli.

Quel che è certo è che una sinistra del XXI° secolo, ancora incapace di elaborare il lutto della caduta del Muro, per definirsi deve partire da qui. Mutatis mutandis, è il conflitto interno a cui assistiamo in questi giorni, con una parte sostenitrice in toto della causa ucraina, un’altra sospettosa nei confronti dell’imperialismo americano, morsa nel paradosso di rischiare di favorire un autocrate che incarna il loro opposto. Che cos’è la destra, che cos’è la sinistra cantava già il compianto Giorgio Gaber. Ecco, da qui si può cominciare ad ottenere qualche risposta.

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