Girata la boa delle tre settimane dall’evento, il panorama delle elezioni legislative francesi – almeno per quanto riguarda il primo turno – inizia a farsi più chiaro. E, adesso che a palazzo Matignon si è insediato il nuovo governo, anche la strategia di Macron in vista dell’appuntamento ha svelato i suoi contorni.

Se infatti la mossa di nominare primo ministro una tecnocrate di antiche simpatie socialiste qual è Élisabeth Borne, e nel contempo di assegnare un dicastero al capogruppo dei Républicains alla Camera dei Républicains Damien Abad (immediatamente estromesso dal partito postgollista) conferma la vocazione del presidente a mescolare le carte e giocare su più tavoli, il complessivo spostamento a sinistra dell’esecutivo – simboleggiato dall’ascesa al ministero dell’educazione nazionale di Pap N’Diaye, un accademico che sostiene l’esistenza in Francia di un «razzismo sistemico» e difende teorie “decoloniali” – mostra che, per vincere anche questa sfida, l’inquilino dell’Eliseo cerca di accattivarsi una parte dell’elettorato potenziale di Mélenchon.

I sondaggi

I sondaggi che si accavallano in queste ore indicano, del resto, che è solo su quel versante che il presidente corre qualche rischio. I vari istituti convergono nel situare attorno al 27 per cento le intenzioni di voto per la coalizione di sinistra Nupes, che supererebbe di un punto o poco meno l’Ensemble che sostiene Macron.

Una competizione così serrata val bene un’accelerazione dei toni progressisti, anche se il meccanismo del doppio turno pare già sufficiente a mettere l’alleanza che esprime l’attuale governo in una botte di ferro. Le previsioni parlano infatti di 290-330 seggi per Ensemble (più dei 289 necessari per la maggioranza assoluta dell’Assemblea), contro i 160-185 di Mélenchon e compagni, a cui spetterà, con ogni probabilità, il ruolo di principali oppositori.

«E le destre?», si chiederà il lettore, magari stupito del fatto che le cifre citate non abbiano nessuna corrispondenza con il 41,5 per cento fatto registrare da Marine Le Pen in occasione del ballottaggio presidenziale. La risposta alla domanda lascia pochi margini di dubbio: nell’insieme, quest’area politica che solo un mese fa aveva dato vigorosi segnali di vitalità, peserà nelle aule parlamentari meno di sempre. Di nuovo, i sondaggi lo lasciano intendere nettamente, anche se sui numeri c’è meno certezza.

Per l’istituto Elabe il Rassemblement national al primo turno potrebbe raccogliere il 21,5 per cento, secondo l’Ifop il 23. Ma se per il primo questi consensi si tradurrebbero in 35-65 seggi, per il secondo la forbice si ridurrebbe a 20-35. E i Républicains, dati dal primo istituto al 10 per cento e a soli 25-30 seggi, per l’altro, arrivando all’11, potrebbero conquistare il doppio. Mentre Reconquête! Di Zemmour con il 6 per cento e Debout la France di Dupont-Aignan con il 2,5 resterebbero quasi a bocca asciutta, disperdendo una parte non trascurabile del sostegno popolare alle tesi sovraniste.

Si tratta di mere ipotesi, certo, perché la logica del sistema elettorale transalpino mette in gioco nel secondo turno il “voto utile” e sia la presenza sia il posizionamento dei candidati al primo turno (che, non va dimenticato, per poter partecipare al ballottaggio devono superare la soglia del 12,5 per cento degli elettori iscritti, non quella dei soli votanti), con l’incognita delle desistenze, sono destinati a contare molto nella decisione finale degli elettori.

Tanto più che, come ha fatto notare il politologo di SciencesPo Dominique Reynié, se l’accordo fra mélenchonisti, socialisti, comunisti ed ecologisti ha fatto saltare lo storico steccato tra moderati e radicali a sinistra, lo stesso potrebbe ora accadere sul versante opposto, vanificando gli appelli dei Républicains al “fronte repubblicano” per sbarrare la strada all’“estrema destra”. Resta il fatto, però, che l’ambizione di Marine Le Pen di sfruttare l’ondata di consensi raccolti il 24 aprile per fare di nuovo del suo partito la formazione politica più votata di Francia e il baluardo contro il macronismo appare già andata in fumo.

Il quadro frastagliato

La mancata possibilità di unificare le forze di un campo strutturalmente ancor più diviso di quello avversario è senz’altro la causa prima, se non unica, di questa situazione. Da ormai quasi quattro decenni, l’incompatibilità fra la destra moderata, o “molle”, postgollista e la “destra nazionale e sociale”, nazionalista e radicale nei programmi e nei toni a lungo incarnata da Jean-Marie Le Pen non ha fatto altro che subire conferme, facendo sedimentare una rete di ostilità e diffidenze anche personali fra i due campi che nessun appello di intellettuali d’area, come lo stesso Zemmour, è mai riuscito a sciogliere.

L’opera di “sdemonizzazione” intrapresa da Marine Le Pen, con le sue sterzate moderate, non solo non ha risolto la questione ma l’ha ingarbugliata, suscitando una serie quasi ininterrotta di dissidenze e scissioni di singoli e gruppi. Molti dei quali hanno colto la palla al balzo quando Eric Zemmour ha deciso di scendere nell’agone politico, sperando di aver trovato l’ariete con cui abbattere il monopolio dei Le Pen nel campo “patriottico”.

L’insuccesso della manovra ha reso l’ipotesi di una convergenza di lepenisti e zemmouristi dopo la presidenziale praticamente impossibile. Il cumulo di invidie, sfiducie e disprezzi reciproci era troppo ampio per consentire mediazioni.

Qualche gesto di buona volontà, o una sorta di annuncio unilaterale di armistizio avrebbe, tutt’al più, potuto rasserenare i due elettorati, senza peraltro avere effetti su militanti e dirigenti. Ma neanche questo si è verificato: anzi, già la sera del secondo turno i commenti velenosi hanno ribadito l’esistenza del solco. Portando a far sì che, il 10 giugno, in 550 delle 577 circoscrizioni nazionali gli elettori di Marine Le Pen si troveranno a dover scegliere fra un candidato del Rassemblement national e uno di Reconquête!, con la prevedibile conseguenza di azzoppare l’uno e l’altro e favorire i concorrenti.

La fine di Zemmour

Il tutto mentre Zemmour, che si presenta nella circoscrizione di cui fa parte Saint-Tropez e pare destinato a essere uno dei pochissimi, se non l’unico, alfiere del suo partito in grado di accedere al ballottaggio, vanta il fatto che, dei candidati di Reconquête!, 176 sono transfughi dei Républicains e 159 del Rn. Un dato che vanta come segno della volontà di costruire l’agognata unione delle destre, ma che le due formazioni oggetto di questa campagna acquisti interpretano come l’ennesimo sgarbo.

Tornano così in auge, sulle copertine delle riviste simpatizzanti e sui siti web dell’area, la celebre frase del leader socialista Guy Mollet, che nel dicembre 1957 aveva definito la destra francese «la più stupida del mondo» (la droite la plus bête du monde), e con essa le autoflagellazioni pubbliche e le espressioni di sconforto. L’occasione epocale per invertire una tendenza perdente ormai di lungo periodo, si scrive e si dice, è stata persa proprio quando sembrava ad un passo. Ma le cose stanno proprio così?

C’è da dubitarne, o perlomeno da discuterne, se si guarda ai progetti, alle idee, agli esponenti di quelle componenti del variegato arcipelago della destra – o meglio, delle destre – che hanno caratterizzato la storia più o meno recente di quest’area in Francia. Una storia fatta non solo di ordinarie concorrenze ma anche di reciproche scomuniche e persino di sanguinosi regolamenti di conti, come accadde nel periodo della seconda guerra mondiale tra collaborazionisti e resistenti e, neanche vent’anni dopo, tra sostenitori e “traditori” dell’Algeria francese.

Alcune di quelle ferite faticano persino adesso a rimarginarsi, e chi spera che ciò possa accadere continua ad attendere il messia capace di chiudere i capitoli oscuri del passato e aprire una nuova era. L’incarnazione più recente di questa speranza è stata, per alcuni, Eric Zemmour, ma i fatti stanno dimostrando che anche in questo caso la scelta non è risultata adeguata alla situazione.

Prima di lui, un’altra figura era parsa poter raccogliere la sfida e portare a compimento la missione quasi impossibile: Marion Maréchal, nata Le Pen, nipote del nonno Jean-Marie e della zia Marine. Sul cui profilo sarà il caso, anche in vista delle future vicende di questo campo politico, di tentare un’analisi più approfondita.

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