Nella giornata di venerdì sono morte almeno 23 persone nei nuovi raid dell’aeronautica israeliana sulla Striscia di Gaza, la maggior parte in un attacco che ha colpito il quartiere Al-Manara nella città di Khan Younis.

Giovedì le vittime erano state oltre 100. Sono ormai passate oltre due settimane da quando il governo ha deciso di far saltare in aria l’accordo di cessate il fuoco, di cui non voleva rispettare le condizioni.

Attacco a sorpresa

Nell’attacco a sorpresa che ha messo fine a due mesi di tregua, nelle primissime ore del mattino dello scorso 18 marzo, si stima siano state uccise circa 400 persone. Come ha scritto l’intellettuale Gideon Levy, se nel 1996 il massacro di Kfar Qana in Libano costrinse Israele a interrompere la guerra a causa delle reazioni internazionali, oggi sarebbe solo «una goccia nell’oceano». In questa nuova fase non si sono registrati morti o feriti israeliani.

C’è la volontà del nuovo capo dell’esercito Eyal Zamir, entrato in servizio a inizio marzo, di far vedere che a differenza del suo predecessore lui può davvero sconfiggere Hamas. C’è, come durante tutto il corso di questa guerra, il ricatto degli oltranzisti al premier Netanyahu: o si avanza senza remore a Gaza, così come in Cisgiordania, o stacchiamo la spina a questa alleanza di governo, l’unica che al momento possa consentire a Bibi di affrontare i processi per corruzione da una posizione di forza. E c’è il solito mantra secondo cui solo la pressione militare può facilitare il rilascio degli ostaggi.

Dall’altra parte del fronte, a pagare il prezzo di queste vicende politico-giudiziarie interne a Israele, ci sono i civili palestinesi, sulle cui teste cadono le bombe sganciate dai caccia per colpire i militanti di Hamas. E ci sono gli ostaggi israeliani. Ma la novità di venerdì è anche l’allargamento significativo delle operazioni di terra, dopo che nell’ambito del cessate il fuoco l’esercito israeliano era ripiegato lungo il perimetro della Striscia. Un comunicato dell’esercito descrive una nuova operazione a Shujaiyeh, un quartiere di Gaza City.

Netanyahu ha anche fatto sapere che le forze di sicurezza israeliane stanno creando un nuovo “corridoio di sicurezza” nel sud di Gaza che potrebbe isolare Rafah da Khan Younis. Bibi lo ha definito «un secondo Filadelfia», alludendo al famoso corridoio che scorre lungo il confine fra Gaza e l’Egitto. Israele si sarebbe dovuta ritirare da quella zona cuscinetto nell’ambito della seconda fase dell’accordo, che sarebbe dovuta iniziare a marzo ma alla quale non si è mai arrivati. Il nuovo corridoio dovrebbe chiamarsi “Corridoio di Morag”, dal nome di uno degli insediamenti israeliani che si trovava lì fino al ritiro israeliano dalla Striscia nel 2005.

Israele ha anche ripreso il controllo del corridoio di Netzarim, che a sua volta prende il nome da un ex insediamento, tornando a separare il terzo settentrionale di Gaza, compresa la città di Gaza, dal resto della Striscia, come prima della tregua del 19 gennaio. Insomma, si ritorna allo status quo precedente il secondo cessate il fuoco, mentre Bibi promette di «frammentare» la Striscia in parti isolate.

Il premier lascia invece al fedelissimo mastino Israel Katz, il ministro della Difesa, l’onore di annunciare, come ha fatto negli scorsi giorni, l’allargamento della cosiddetta fascia di sicurezza lungo tutta la frontiera Gaza-Israele. Si tratta di una terra di nessuno, finora di circa 900 metri o un chilometro, nella quale Israele ha già raso al suolo qualsiasi edificio o struttura agricola, e nella quale non consente l’ingresso di palestinesi.

Sullo sfondo di questa pesante recrudescenza dell’offensiva militare israeliana rimane vivo un nuovo movimento di protesta dei residenti di Gaza contro la militanza di Hamas. «Ora c’è una chiara posizione di Hamas e del suo ministero degli Interni: vogliono mantenere il controllo su Gaza nonostante il prezzo altissimo da pagare», dice in collegamento Zoom da Gaza Moumen al-Natour, avvocato ventinovenne e sostenitore delle proteste, nell’ambito di un incontro organizzato dalla ong con base a Gerusalemme “MediaCentral”. «Ma dal 7 ottobre [2023] questo prezzo ricade su noi civili. Stiamo pagando le conseguenze dell’incoscienza di Hamas, la guerra è aperta e non sembra avere fine», continua.

Al-Natour, che nel 2019 era finito in carcere in quanto organizzatore delle proteste “Vogliamo vivere” contro la situazione economica nella Striscia, racconta come lo scorso lunedì una piccola manifestazione sia sorta spontaneamente dopo che i miliziani avevano lanciato un razzo contro il sud di Israele, provocando nuovi ordini di evacuazione e la prospettiva di nuovi raid sulla zona.

Come sei anni fa, quando era stato maltrattato in carcere a causa delle proteste, lancia anche l’allarme sulla scarsa accessibilità dei generi alimentari. «Guarda cosa è successo ora che la guerra è ripresa. Tutti i panifici sono chiusi. Un chilogrammo di farina per fare il pane a Gaza ci costa circa 150 dollari», dice. E ancora: «La gente non aveva i soldi per comprarla nemmeno quando i prezzi erano nella norma. Siamo sull’orlo del collasso e Hamas deve capirlo».

I calcoli del governo

Sul giornale israeliano Yediot Ahronot, il più diffuso prima che nel 2007 il tycoon israelo-americano Sheldon Adelson regalasse a Bibi Israel Haiom, il tabloid gratuito che ne ha accompagnato il rilancio politico, Avi Shilon critica il governo israeliano per aver ignorato le proteste, che definisce «il meglio che Israele avrebbe potuto augurarsi». «Questo sarebbe potuto essere il momento più importante della guerra», ha scritto, «ma stiamo sprecando questa opportunità a causa della miopia del governo».

Secondo l’editorialista, l’inazione di Israele è, in fin dei conti, calcolata. «Dimostra come l’esecutivo non voglia presentare i cittadini di Gaza come persone con cui si possa convivere, è più semplice e conveniente non separare il pubblico dal regime». Un atteggiamento che ricorda quello della vigilia del 7 ottobre.

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