Parla Padre Gabriel Romanelli, il sacerdote che “governa” la parrocchia della Sacra Famiglia nella Striscia: «La situazione è sempre più drammatica. Aiutiamo decine di migliaia di persone: ma se i viveri non arriveranno più anche noi saremo costretti ad interrompere»
Le grida di bambini di sottofondo, che ballano al suono di una musica molto ritmata e ridono felici, evocano un contesto rilassato, sereno. La sensazione, però, dura un momento. A riportare tutto alla normalità dei gazawi ci pensa il frastuono causato da un’esplosione e le grida dei piccoli che si trasformano in urla. «È il nostro surrealismo quotidiano», spiega al telefono Padre Gabriel Romanelli, il parroco cattolico della Striscia di Gaza. «Ormai i bambini si sono talmente abituati che quando sentono spari o il rumore delle bombe, corrono a nascondersi sotto qualche tettoia o in un cunicolo ma dopo qualche minuto, appena cessano i boati, riprendono a giocare».
Comincia così il colloquio che il sacerdote argentino di origini italiane ci ha concesso mentre svolgeva la sua attività con i bambini nell’oratorio della parrocchia della Sacra Famiglia, quartiere al Zaitoun, nella zona settentrionale di Gaza city. È arrivato a Gaza nel 2019 dopo un lungo periodo di servizio missionario in vari paesi arabi e in Palestina. Il 7 ottobre 2023, al momento dell’orrore di Hamas in Israele, si trovava fuori della Palestina e non ha potuto farvi rientro per motivi di sicurezza.
Lontano dal suo popolo per sette mesi, approfittò della visita a Gaza del patriarca latino di Gerusalemme, il cardinale Pizzaballa, a giugno del 2024, per ritornare. Da allora assiste incredulo al deteriorarsi progressivo della situazione, ma non smette di richiamare tutti al ragionamento e di invocare il raggiungimento di accordi per il bene di ogni parte coinvolta nel conflitto.
«La situazione ha ormai assunto le caratteristiche della catastrofe ma, per quanto sembri impossibile, peggiora di giorno in giorno. Oltre ai bombardamenti, c’è la grave questione degli aiuti umanitari che non arrivano e qui ormai gli aiuti decidono la vita o la morte delle persone».
Gli aiuti sono bloccati ovunque?
Non del tutto, ieri in alcuni centri al sud, c’è stata un po’ di distribuzione. Ma noi siamo distanti circa 30 chilometri, le persone non riescono a raggiungerli, le strade non sono sicure e non ci sono soldi per pagare trasporti. Prima della guerra la situazione era già critica, ma perlomeno funzionavano tanti centri dell’Onu o di Ong internazionali. Noi stessi riuscivamo ad aiutare decine di migliaia di persone. Ora è difficilissimo, ogni giorno siamo costretti a razionare di più rispetto al giorno precedente.
Purtroppo, non riusciamo a ricevere neanche gli aiuti predisposti dal Patriarca Latino di Gerusalemme, il cardinal Pizzaballa, da oltre tre mesi. Noi fin dall’inizio della guerra aiutiamo decine di migliaia di individui compresi gli oltre 500 rifugiati che vivono con noi, nei locali della nostra chiesa. Ma se gli aiuti non passano, saremo costretti a interrompere.
Ormai in molte zone si fa la fame.
Purtroppo sì. Tenga presente che qui da noi già prima, la produzione interna di generi alimentari era scarsa, ora i beni di prima necessità stanno divenendo beni di lusso: un chilo di zucchero costa 50 dollari, uno di farina 40/50 dollari. Non ci sono più soldi e la gente è ritornata al metodo del baratto: mezzo chilogrammo di riso in cambio di melanzane o zucchine che vengono coltivate in piccolissimi appezzamenti di terreno risparmiati dai bombardamenti.
Poi c’è il problema del trauma che la violenza ha creato nella vita quotidiana di tutti: quella musica che sentiva all’inizio della telefonata, proveniva da uno stereo che avevo acceso per fare ballare i bambini i quali ormai vivono in una condizione surreale permanente. A volte se sentono i bombardamenti vanno a nascondersi e poi riescono subito, ma altre, continuano a giocare come se niente fosse. Noi stessi ieri, per farle un esempio, eravamo in chiesa per una funzione e abbiamo sentito un boato forte: nessuno di noi ha pensato di andarsene, abbiamo continuato quello che stavamo facendo.
La Chiesa cattolica è stata tra le poche realtà globali a far sentire la propria voce in difesa della popolazione civile, a chiedere ripetutamente la cessazione dei combattimenti e a condannare le stragi...
La gente ha percepito una vicinanza. Come è noto Francesco ogni mattina alle 7 mi telefonava per avere notizie e in corrispondenza facevamo suonare le campane, era l’“Ora del papa” e tutti sapevano e si sentivano compresi, a prescindere da fede o appartenenza.
La chiesa ha sempre avuto una posizione chiara, ha condannato le violenze di ambo le parti e invoca l’ingresso degli aiuti umanitari. Nonostante tutto, non abbiamo abbandonato la speranza, non ci sono guerre eterne. Per il bene di tutti, di Israele e Palestina, prima si ferma questa assurdità e più sarà facile guarire le immense ferite.
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