Il cerchio che si chiude. C’era anche questo nelle immagini di Mario Draghi che accoglie Giorgia Meloni alla fine della scala d’onore che porta al primo piano di palazzo Chigi, dove ci sono le stanze del presidente del Consiglio. «Benvenuta», ha detto Draghi, raramente si ricorda un passaggio di consegne più cordiale.

Il premier uscente aveva stampato quel sorriso che lo accompagna da quando si è liberato delle incombenze politiche della sua carica, per esempio avere a che fare con i leader dei partiti di unità nazionale, la premier entrante appariva sollevata di trovarsi di fronte un volto amico che gli porgeva un quasi abbraccio, dopo tanti giorni alle prese con alleati che non nascondevano la loro irritazione per fare da comprimari.

Un atteggiamento accogliente, per certi versi protettivo, che, al pari di quello ostentato dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella durante il giuramento del governo, amplifica l’idea che si vuole trasmettere fuori dai confini nazionali: un passaggio di potere ordinario, non un cambio rivoluzionario.

Includere, rassicurare, per Mattarella sono la base del suo agire e della sua cultura politica. Tranquillizzare, forse normalizzare. A fare il resto c’è il governo in grigio, per anzianità anagrafica e di servizio, undici i rientranti da qualche governo Berlusconi, per scoloritura di convinzioni, per la complessiva medietà della squadra di governo.

Paolo Borsellino

«Un cerchio che si chiude». È stata Giorgia Meloni a dirlo quando venerdì 21 ottobre, durante la prima visita alla Camera dopo aver presentato al Quirinale la lista dei ministri, si è trovata di fronte la foto di Paolo Borsellino, una mostra sulle vittime della mafia negli anni Ottanta-Novanta.

Per la neo presidente del Consiglio il cerchio che si chiude è il ricordo del passaggio chiave della sua vita. «A quindici anni e mezzo bussai al portone blindato della sezione del Fronte della gioventù nel quartiere della Garbatella, in cui avrei trovato la mia seconda famiglia. Più dell’indirizzo, conta la data che fu il motivo scatenante di quella decisione: 19 luglio 1992, il giorno dell’attentato a Paolo Borsellino», ha scritto nella sua autobiografia Io sono Giorgia.

«Ho un’immagine nitida di me stessa, seduta in tinello, in una giornata caldissima, mentre guardo al telegiornale i fotogrammi sconvolgenti di quella devastazione. Riesco ancora a sentire la rabbia che si impasta con l’emozione. Un interruttore. Non accettavo più di sentirmi impotente, non sarei rimasta a guardare. Mi rivolsi al Fronte della gioventù e al Movimento sociale italiano».

Nell’estate del 1992 Mario Draghi era il direttore generale del ministero del Tesoro, chiamato in via XX settembre da Guido Carli un anno prima, nel governo Andreotti, l’ultimo premier della dinastia dei democristiani.

Qualche settimana prima aveva partecipato al convegno a bordo «dello yacht di Sua maestà Britannia», come recitava il cartoncino di invito, compilato dagli organizzatori, i British Invisibles, che sembravano fatti apposta per eccitare i complottisti, ben prima dei social. Dal panfilo della regina Elisabetta, al largo di Civitavecchia, recita la leggenda nera, Draghi avrebbe dato il via libera ai processo di privatizzazione dell’industria di stato, «simile a quello parallelo avviato in Russia con gli oligarchi», è tornato ad attaccare anche di recente Giulio Tremonti, neo deputato di Fratelli d’Italia.

Nel 1992 Draghi stava per compiere 45 anni, l’età che Giorgia Meloni ha oggi al momento di cominciare la sua impresa da presidente del Consiglio. Trent’anni esatti li dividono all’anagrafe, l’uomo già inserito nell’establishment e l’adolescente sconvolta dalla strage di via D’Amelio che corre a iscriversi al partito erede del fascismo, il polo escluso come lo ha definito Piero Ignazi.

Il cerchio che si chiude non riguarda dunque solo la vicenda personale, individuale di Giorgia Meloni. Sul trentennio che va dal 1992 al 2022 vale la pena indagare per capire la natura del governo appena nato e cosa succederà.

La rottura e la continuità

Trent’anni fa, nel 1992, in pochi mesi il sistema politico, la Repubblica dei partiti, è andato in rovina, senza essere sostituito, in modo drammatico: stragi, suicidi, ex presidenti del Consiglio trascinati nei tribunali o in fuga all’estero. Apparve una rottura traumatica, e lo fu per molti protagonisti. Ma trent’anni dopo quello che resta è soprattutto una continuità di classi dirigenti all’interno della dissoluzione di quelle strutture che assicuravano la mediazione tra la società e lo stato: i partiti, i sindacati, le associazioni, il sistema produttivo di grandi imprese pubbliche e private e di piccole e medie aziende.

Fu Silvio Berlusconi, che non era un uomo nuovo ma un beneficiario del sistema, a incassare i dividendi politici di Tangentopoli. Fu lui a costruire da zero il centrodestra, era il nuovo, ma – come è capitato in altre fasi della storia italiana – non era il diverso. Un Caimano che nei venti anni successivi ha devastato il residuo senso civico degli italiani, ma anche un Gattopardo.

Ora arriva al governo Giorgia Meloni. Che nel 1992 ha cominciato a fare politica, a 15 anni, a Roma. «Erano mesi bui e di grandi tensioni, la classe politica era giustamente sotto accusa e l’inchiesta di Mani pulite stava già falcidiando i principali partiti di quella che presto sarebbe stata archiviata col nome di Prima repubblica», ha scritto.

«Ero stata a una manifestazione del Fronte della gioventù qualche tempo prima, trascinata da una compagna di scuola. Avevano inscenato una rappresentazione in cui i ragazzi erano travestiti da alcuni dei personaggi principali dei partiti dell’epoca in tuta da carcerato, a simboleggiare una Prima repubblica che aveva costruito la sua fortuna depredando le future generazioni. Mi ero sentita a mio agio... Il Movimento sociale italiano era del tutto estraneo alle ruberie e alla corruzione che venivano scoperchiate in quegli anni e fu inevitabilmente protagonista di quella tumultuosa stagione di passaggio».

Nel 1992, in realtà, il Msi era un partito in via di estinzione. Nell’ottobre di trent’anni fa, in coincidenza con i settanta dell’anniversario della marcia su Roma e della conquista del potere mussoliniano, il segretario Gianfranco Fini aveva organizzato una manifestazione a Roma, si chiedeva come fosse «possibile che qualche saluto romano abbia creato tanta agitazione».

Il Msi provava a cavalcare le inchieste della magistratura in chiave anti partiti della Prima repubblica (anti fascisti). I missini si battevano nelle piazze e nelle assemblee per rappresentare, a loro modo, il nuovo che avanzava, la guerra alla corruzione. Con qualche incidente di percorso. I

l primo aprile 1993, per esempio, un gruppo di deputati e un centinaio di militanti manifestarono davanti a Montecitorio. «Arrendetevi, siete circondati!». «Ma quale immunità parlamentare, il popolo, il popolo vi deve giudicare!», gridavano. E anche: «Ruba il socialista, ruba il comunista, l’Italia che ruba è antifascista!». «Scrivete pure che siamo fascisti, ci fate un piacere», specificarono i manifestanti con i cronisti.

Tra loro l'onorevole Teodoro Buontempo, detto Er Pecora, il più amato e votato tra i missini romani, e altri parlamentari: Maurizio Gasparri, Giulio Maceratini, Nicola Pasetto, Raffaele Valensise. Qualcuno impugnò una fionda, e tirò una monetina o una biglia contro il vetro smerigliato dell’ingresso. La porta del parlamento fu colpita come da un proiettile e traforata, i manifestanti indagati.

È questo il contesto in cui si forma la giovanissima Giorgia Meloni. Alla manifestazione di esordio, l’imprinting, i politici erano «in veste da carcerato». Ha fatto parte di quella generazione nata e cresciuta nella politica della Seconda repubblica, fondata sulla dissoluzione della Prima, in mezzo al deserto della politica.

Il Msi non fu il partito «inevitabilmente protagonista» di quella stagione, come lei scrive. Fu un partito subalterno e trainato da Berlusconi, che di Mani pulite si avvantaggiò e poi si sbarazzò, per poi diventare il nemico giurato della magistratura. Dal Msi è nata Alleanza nazionale e poi Fratelli d’Italia. Tutte fasi in cui la destra post fascista si è ritrovata al governo, a differenza ad esempio della estrema destra francese o spagnola, ma come partito alleato minore di Berlusconi, tenuto in uno stato di inferiorità.

Oggi quel rapporto di forza si è invertito. Berlusconi, invecchiato e indebolito, è costretto suo malgrado a inseguire la nuova premier, giovane e donna. Uno degli scontri si è consumato sul ministero della Giustizia, dove Berlusconi avrebbe voluto un suo nome e Meloni ha scelto un ex magistrato, Carlo Nordio, che nel 1992-1993 ha rappresentato un modello alternativo al pool delle toghe di Milano guidate da Antonio Di Pietro, per cui gli amici di Meloni scendevano in piazza. E chissà se lei c’era, ma perché mai una militante giovane e appassionata come lei non avrebbe dovuto esserci?

Il ritorno della politica

Il cerchio si chiude, dunque. Il trentennio della globalizzazione in Italia ha significato crollo del ruolo della politica e smantellamento di un sistema industriale largamente costruito con la mano pubblica. Quel che nel 1992 è stato spazzato via non è mai stato ricostruito. Semmai è stato sostituito. Per la sinistra, ma anche per la destra, sono stati trent’anni di subalternità, di vuoto.

Nel 2022, una professionista della politica torna al vertice del governo, nel segno della destra. Dopo trent’anni in cui c’è stata una catena di imprenditori (Berlusconi), professori (Romano Prodi, Giuliano Amato, Mario Monti), banchieri centrali (Carlo Azeglio Ciampi, Lamberto Dini, Mario Draghi), avvocati (Giuseppe Conte) e pochissimi politici: Enrico Letta, Paolo Gentiloni. E una coppia di leader, Massimo D’Alema (1998-2000) e Matteo Renzi (2014-2016), entrambi arrivati a guidare il governo dalla posizione di segretari del partito di maggioranza della coalizione, ma senza passare da un voto, con un colpo di palazzo e quindi costretti a cercare una legittimazione nelle urne ex post, ma senza trovarla.

Rispetto a questi precedenti, la storia di Meloni è diversa, per genere, per origine politica, perché ha vinto le elezioni, perché la sua storia politica è tutta all'interno di un trentennio che definisce una generazione politica, con alcune caratteristiche. Non è una rottamatrice, come voleva essere Renzi. Non è una post, come D'Alema che indossò come un abito da sera il riformismo blairiano e si propose di guidare la rivoluzione liberale, da ex comunista. Tutto questo faceva parte dell’ottimismo con cui si guardava al mondo e alla storia negli anni Novanta dello scorso secolo. Ma la generazione Meloni è cresciuta in condizioni diverse, in cui le promesse della giovinezza si sono capovolte, a volte in un incubo.

C’è stato il tramonto delle ideologie, la fine della storia, e il loro ritorno. La globalizzazione, con la dichiarata fine degli stati nazionali, è entrata in crisi con la recessione del 2008 e con le tempeste degli anni Dieci e Venti.

La Rete ha prima espresso la sua carica rivoluzionaria e poi quella reazionaria. Le pari opportunità e il merito, la flessibilità e il lavoro conforme alle aspettative hanno lasciato il posto alla frustrazione e al rancore. L’individuo ha occupato il centro della scena, con i suoi bisogni e i suoi desideri, ma la paura ha provocato il ritorno delle comunità e della tradizione (su questo da leggere ieri Giovanni Orsina sulla Stampa).

L’idea di un mondo pluralista, interetnico e interculturale, si scontra con la spinta al ritorno delle nazioni e, infine, della guerra. L’Europa era necessaria, la spinta all’adesione all’Unione si spingeva a confini imprevisti, oggi è un ring, un campo di battaglia vietato a chi ha le spalle sottili. E la politica che sembrava destinata a un ruolo ancillare e subalterno è tornata a candidarsi a guidare i processi, per ora senza molto successo, in realtà. Il paradosso è che di tutto questo a sinistra non se ne sono accorti, o non sono riusciti a rielaborare un pensiero e una organizzazione nella società, a destra hanno pensato che recuperando la propria identità di partenza, quella di sempre.

Un doppio errore, perché si tratta di una doppia conservazione: ma in questo momento l’errore premia la destra. È questa la vera novità, una sfida per tutti i partiti: il ritorno del ritorno dello stato e delle politiche pubbliche e nazionali, difficili da comporre in Europa. E il ritorno alle identità politiche, per colmare il vuoto di rappresentanza. Ricostruire la politica per riscrivere un nuovo patto, sul modello di quello che ha tenuto in piedi la Prima repubblica. Nel quadro di una democrazia europea sempre più fragile, a rischio, come dimostra il caso dell'Inghilterra ma anche la debolezza della leadership tedesca.

Il modello putiniano nel cuore dell'Europa

Trent’anni fa i paesi dell’Europa orientale furono la pietra di paragone della fine della Prima repubblica. Una nomenklatura inamovibile, di stampo sovietico, una alternanza impossibile, e poi la nascita di nuove leadership e di nuovi partiti in continuità con il passato. Nel 1989-19090, quando è caduto il muro di Berlino, il presidente della Repubblica Francesco Cossiga osservava che in Germania c’era un muro di mattoni, in Italia un muro immateriale ma altrettanto solido. Era stata l’Italia, dopo la Germania, il paese europeo più segnato dalla Guerra fredda e dagli accordi di Jalta del 1945.

Il 1992 è stato l’effetto della fine di quel sistema. In anni più recenti l’Italia è stata vicina a diventare il paese più legato al modello putinista dell’Europa occidentale: la democrazia sganciata dal liberalismo, che è il potere di controllare e di limitare i governanti.

«Se si prende in considerazione l’estrema debolezza della fiducia nei confronti delle istituzioni della democrazia parlamentare e delle élite politiche (ritenute corrotte e inefficienti), si vede emergere nella società una base per un potere forte che non sia soggetto a costrizioni da parte dei contropoteri dello stato di diritto.

«Insieme al disincanto nei confronti della democrazia, il secondo impulso favorevole alla deriva illiberale o autoritaria è il nazionalismo. L’alter ego della sovranità popolare è la sovranità nazionale, che il potere forte deve proteggere sia dalle ingerenze della Ue sia dall'ondata migratoria», ha scritto il politologo ceco Jacques Rupnik in Senza il muro (Donzelli, 2019).

«Nel 1989 pensavamo che l’Europa fosse il nostro avvenire. Oggi pensiamo di essere noi l’avvenire dell’Europa», ha rivendicato il premier ungherese Viktor Orbán, citato da Rupnik. Noi, cioè l’Ungheria e la Polonia, i primi paesi a sganciarsi dall’orbita dell’Unione sovietica nel 1989, hanno anticipato il cambiamento e oggi guidano l’onda sovranista nell’Unione europea.

Il governo di Varsavia e il partito nazionalista Diritto e giustizia sono i più vicini a Fratelli d’Italia. Con i sovranisti di Polonia e di Ungheria c’è la condivisione di un impianto ideologico nazionalista che è la exit strategy dal ciclo lungo aperto da Maastricht dopo la caduta del muro di Berlino: la prevalenza degli stati nazione sull’Unione di Bruxelles. Un mix di atlantismo e di difesa delle identità tradizionali.

Il no all’invasione russa dell’Ucraina di Meloni l’ha spinta lontano dal filoputinismo di alcuni suoi alleati di governo, Matteo Salvini e Silvio Berlusconi, ma il progetto di putinizzazione dell’Italia, di far scivolare l’Italia verso il modello orientale è stato condotto in questi anni con grande spregiudicatezza e non si può escludere che riparta.

Anche perché il modello putiniano, l’intreccio tra nazionalismo, l’allergia alle istituzioni di controllo come stampa e magistratura e al pluralismo culturale e politico, l’indebolimento del parlamento e di tutte le assemblee rappresentative e il culto della leadership, non è certo monopolio del presidente russo. È nel cuore della Nato (la Turchia di Erdogan) e dell'Europa (Polonia, Ungheria, il gruppo di Visegrad). E l’Italia è il laboratorio politico più delicato.

L’incrocio

Negli ultimi anni l’Italia ha oscillato tra il commissariamento tecnocratico e il populismo, due esperienze che hanno fallito nell’obiettivo di restituire all’Italia un sistema politico stabile e coerente.

La prima parte dell’ultima legislatura, il governo Cinque stelle-Lega presieduto da Giuseppe Conte, ha rappresentato il punto più alto dell’antipolitica e l’inizio della sua fine. Oggi il Movimento 5 stelle, guidato da Conte, è l’opposto del soggetto virtuale delle origini, rappresenta gli interessi più corposi e materiali dell’elettorato: il sud del reddito di cittadinanza, il ceto medio impaurito dall’impoverimento. Si propone come un sindacato dei cittadini, in difesa dei diritti acquisiti.

La seconda parte è stata caratterizzata dall’unità nazionale di Mario Draghi. Ma ancora una volta la tregua offerta dal governo presieduto dall’ex banchiere centrale non è servita al sistema dei partiti per ricostruire la loro tavola dei valori e la loro presenza nella società. Eppure, trent’anni dopo il 1992, questo serve, partiti in grado di offrire una nuova mediazione, sulla base di valori e interessi. La pandemia, la guerra in Ucraina, l’emergenza energia, la recessione in arrivo, ripropongono l’esigenza per la politica di avere un corpo, cioè l’ossatura fisica di una nuova rappresentanza. La destra, da sempre, conosce bene il proprio elettorato e sa come rappresentarlo e tutelarlo. Il Pd, in crisi di identità, ha una composizione sociale in via di erosione, che è la base del suo declino elettorale.

Giorgia Meloni è in questo punto di incrocio. Incarna una identità politica e culturale di indubbia matrice nazional-reazionaria. È una professionista della politica, e della politica di partito, non ha fatto altro nella vita. In più è romana, profondamente romana, da sempre a contatto quotidiano con i palazzi della politica. La sua non è dunque la vittoria dell’antipolitica modello Movimento 5 stelle.

Le biografie dei nuovi ministri stanno lì a dimostrarlo: in molti di loro hanno percorso tutte le stagioni, dal 1992-1993 in poi, sono in gran parte leghisti, berlusconiani, post fascisti ormai invecchiati. Per questo non ha ragion d’essere il senso di esclusione storico del post fascismo italiano che Meloni porta con sé, la carica di rivincita, di riscossa e di vittimismo (nella narrazione meloniana il mondo è popolato dalla sinistra che vuole cancellare le radici, le tradizioni) che arriva nonostante tanti anni di sdoganamento e di partecipazione alla distribuzione delle poltrone di governo e di sottogoverno.

Più che nel 1922, esercizio sterile, tra le cause che hanno portato la sinistra alla sconfitta, le sue radici vanno cercate nel 1992, quando è cominciata la storia dell’ultimo trentennio, in cui si è svolta tutta l'attività politica di Giorgia Meloni che coincide con la sua vita.

La sua sfida, per chiudere davvero il cerchio, è costruire un partito nazionale che non sia alimentato da una piccola asfittica comunità di iniziati uniti dal culto del capo, declinato al femminile, vistosamente eccitati per il successo (che non appartiene a loro) e gelosi della loro antica amicizia con la premier, pronti a farle un cordone sanitario attorno contro chi prova a salire sul carro senza militanza pregressa. Una sfida che si gioca nel governo, dalla poltrona centrale della sala del Consiglio dei ministri di palazzo Chigi dove Meloni si è seduta ieri mattina, dopo aver congedato Draghi.

Il centrodestra ritorna nei ministeri senza un radicale progetto di cambiamento, dalle prime battute il governo sembra destinato all’ordinaria amministrazione, alla gestione dell'esistente, ovvero del potere, vuole distribuire più che governare, lo stesso virus che ha soffocato il Pd. Per chi vuole costruiren un’alternativa, per la sinistra, la missione è inversa: non si va al governo senza una battaglia culturale e un corpo a corpo nella società. Lasciare alle spalle il trentennio senza politica. Chiudere il cerchio.

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