Le ultime sentenze della Corte suprema americana hanno lasciato una sola certezza: c’è indubbiamente una maggioranza conservatrice tra i nove giudici. Tutto come previsto, dopo che Donald Trump è riuscito a portare a termine ben tre nomine durante il suo primo mandato.

Ma ciò non si è affatto tradotto in una corazzata giuridica fatta di sentenze politicamente orientate. Anzi. Si è raggiunta l’unanimità nel 43 per cento casi, secondo il sito specializzato ScotusBlog, grazie al lavoro di tessitura del giudice capo John Roberts, che ha in questo modo rafforzato il suo ruolo di presidente della Corte cercando quanto più possibile di parlare con una voce univoca e non fraintendibile.

Se poi si considerano i casi con un dissenso minimo di un solo giudice, la cifra sale al 67 per cento. Un grosso aumento rispetto al 2018 e al 2019, dove si arrivò al massimo al 49 per cento.

Lo scontro politico

Ricordiamo cosa è successo l’anno scorso. La morte improvvisa della giudice e icona liberal Ruth Bader Ginsburg nel settembre 2020. Il leader repubblicano al Senato Mitch McConnell si rimangiò senza problemi la sua dichiarazione del 2016, poco dopo la morte del giudice conservatore Antonin Scalia, quando aveva detto a Barack Obama che ormai la scelta sarebbe dovuta spettare al nuovo presidente. E il decesso era avvenuto a febbraio.

McConnell non è tipo da sottilizzare e così Donald Trump nominò il suo terzo giudice, o meglio la sua terza: Amy Coney Barrett. Sulla carta un background da originalista di ferro, disposta a far saltare la protezione per le coppie Lgbt e soprattutto la pietra dello scandalo dei conservatori, quella sentenza Roe v. Wade del 1973, dove si stabiliva la protezione costituzionale per il diritto d’aborto. Oltreché, naturalmente, all’occorrenza, ribaltare il risultato delle elezioni. Ma a quello credevano soltanto Trump e il suo entourage. Invece non è stato così.

Il blocco conservatore è stato efficace nel confermare le restrizioni al diritto di voto varate in Arizona a inizio come costituzionali, con una sentenza con maggioranza di 6 giudici conservatori contro i tre liberal, tra cui l’ottantatreenne Stephen Breyer, che diversi commentatori del mondo progressista vorrebbero che levasse il disturbo piuttosto in fretta, in modo da nominare una sostituta giovane e attivista, come Ketanji Brown Jackson, appena nominata nella corte d’appello del circuito di Washington DC, dal quale normalmente si estraggono i nuovi giudici.

Amy Coney Barrett si è rivelata una sorpresa. Non sarebbe la prima volta. Nel 1990 George H.W. Bush nominò David Souter, che si presumeva un conservatore affidabile. Negli anni successivi si spostò al centro, per diventare un pilastro dei liberal fino al ritiro nel 2009. O per citare un caso più calzante, John Roberts: posto a capo della Corte da George W. Bush nel 2005 come erede del «reazionario bastardo» William Rehnquist (citazione di Richard Nixon, che lo nominò nel 1972), si è spostato al centro, pur rimanendo un conservatore, ma abbastanza per salvare l’Obamacare nel 2012, quando la sua abrogazione sembrava cosa certa. Perché Coney Barrett, come Roberts, si è rivelata una seguace di una teoria giuridica, il judicial restraint, in italiano traducibile con “moderazione giudiziaria”.

Se i due principali filoni interpretativo-filosofici sono l’originalismo, che vuole valutare le leggi secondo lo spirito originario della carta fondamentale degli Usa, quindi in modo restrittivo, e dall’altro lato c’è la teoria della “Costituzione vivente”, in parole povere il significato delle leggi cambierebbe con il tempo e le circostanze, anche senza emendamenti formali; la “moderazione giudiziaria” aggiunge una terza via che sostiene che i giudici non devono abusare del loro potere nei confronti degli altri rami del potere federale, presidenza e Congresso.

In virtù di questa tendenza, Coney Barrett ha respinto l’ennesimo ricorso contro la costituzionalità dell’Obamacare, lanciato da diversi stati conservatori, insieme a sei suoi colleghi, liberal e conservatori. Solo Samuel Alito e Neil Gorsuch, nominato da Trump, hanno dissentito per iscritto.

In una sentenza riguardante una legge anti hackeraggio del 1986, ha scritto un’opinione condivisa dai suoi colleghi di nomina trumpiana e dai tre giudici progressisti, una coalizione piuttosto inusuale.

Indipendenza di giudizio

Nella sentenza si dice che questa legge, che afferma che non si può usare in modo improprio l’informazione acquisita per via telematica, non può essere applicata in modo estensivo, come vorrebbe il dipartimento di giustizia. Coney Barrett afferma che «si potrebbe applicare a molte attività quotidiane quali l’abbellimento del proprio profilo su un sito di dating o l’uso di uno pseudonimo su Facebook».

In due sentenze però, lei ha mostrato la sua indipendenza di giudizio. Nella prima ha firmato tre pagine di aggiunta alla sentenza riguardante un’organizzazione cattolica che fornisce servizi di adozione con i soldi pubblici della città di Philadephia.

Secondo i principi di libertà religiosa e di parola garantiti dalla Costituzione, l’organizzazione può rifiutarsi di dare i servizi alle coppie omosessuali sull’affido dei bambini. Sentenza che è stata, sorprendentemente, unanime. Con qualche “concurrence”, ovvero un paio di aggiunte.

Nella prima Coney Barrett, insieme al conservatore Brett Kavanaugh e al liberal Stephen Breyer, afferma che la sentenza non deve portare a «un balzo in avanti» giudiziario che ribalterebbe anche un precedente del 1990 che pone dei limiti alle esenzioni religiose riguardanti le leggi (e che potrebbe fornire una facile scappatoia per la discriminazione sistematica delle minoranze).

Idea che invece è condivisa dall’ala più radicale dei conservatori, composta dai giudici Neil Gorsuch, Clarence Thomas e Samuel Alito. Come sostiene Coney Barrett “la risoluzione dei conflitti da parte della Corte tra legislazione generali e diritti del Primo Emendamento dev’essere molto più sfumata”.

Niente tagli netti con l’accetta, quindi. Infine, su una sentenza riguardante l’esenzione per le raffinerie dall’uso dei biocarburanti nelle loro miscele, una legge sulla quale hanno spinto anche i rappresentanti repubblicani di stati come l’Iowa e il Tennessee, grandi produttori di combustibili di origine vegetale.

Se la maggioranza di sei giudici maschi ha affermato che certe esenzioni anche dopo la deadline «vengono spesso usate nella vita quotidiana», Coney Barrett ha affermato insieme alle due icone liberal Sonia Sotomayor ed Elena Kagan, entrambe nominate da Barack Obama, che questa estensione non esiste, perché questa esenzione ormai è scaduta da tempo.

Senatori conservatori come il repubblicano Chuck Grassley hanno detto che questo giudizio è una vittoria per il mondo del “Big Oil”, un’espressione più comune nel mondo ambientalista che tra i repubblicani, che spesso su quei finanziatori hanno fatto affidamento.

Ciò detto, è difficile pensare che Amy Coney Barrett sia diventata improvvisamente una liberal attivista dell’espansionismo dei diritto. Semplicemente la sua filosofia giudiziaria ha evidenziato due aspetti: la maggioranza conservatrice è tutt’altro che compatta e questo dovrebbe dare un certo respiro anche alle istanze progressiste.

Ma soprattutto, l’allarme lanciato dalla leadership democratica nell’ottobre 2020 sullo smantellamento delle sentenze progressiste degli ultimi cinquant’anni è stato decisamente esagerato.

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