L’abbattimento è l’unica cosa certa. Il resto sono illazioni. Le suggestioni si sono accalcate, spinte dall’irrefrenabile forza motrice del ritenere di avere un dettaglio in più: quella dell’oggetto volante non precisamente identificato è stata l’ennesima occasione per far esibire i muscoli ai “palestrati” della geopolitica. Nemmeno il tempo di far cadere a terra i rottami del “drone” che già le certezze si accatastavano.

L’episodio ha innescato l’affresco di uno scenario cangiante in ragione della prospettiva di chi narra o di segue il racconto o la versione. Quel che è accaduto è tutt’altro che un evento imprevedibile o sorprendente e proprio per questa ragione va preso in considerazione con la stessa cautela con cui un artificiere maneggia un ordigno. I discendenti degli “aeromodelli” di un tempo sono un efficace strumento di offesa e chi è nel mirino di qualsivoglia avversario ha ben presente la natura della minaccia e riconosce la necessità di dotarsi di idonee contromisure.

Chi si affaccia ad una finestra o arringa la gente da un palco all’aperto teme i cecchini e i droni. Questi ultimi hanno subito azzerato l’handicap di piazzare l’operatore nelle vicinanze del bersaglio e soprattutto in diretto contatto visivo. Il pilota, a differenza del tiratore scelto, può trovarsi altrove quasi fosse un protagonista dello smart working bellico.

Chi agisce da remoto deve fare i conti con due fattori fondamentali: l’autonomia del suo dispositivo volante e la massima distanza per poterlo governare. Certi attrezzi, a differenza degli aerei “unmanned” (ovvero senza equipaggio a bordo), hanno una “portata” ridotta che non è condizionata dal veder bene dove andare e cosa fare: minuscole telecamere, infatti, permettono una visibilità straordinaria e quindi quel genere di problema è ampiamente superato.

Gittata

Chi si avvale di certi aggeggi si chiede anzitutto quanto tempo questi possono stare per aria e, nel caso si intenda recuperarli a fine missione, il “chilometraggio” o le “ore” vanno dimezzate prevedendo – appunto – andata e ritorno. Il secondo quesito riguarda la “gittata” dei sistemi ricetrasmittenti che servono per manovrare il drone e per gestirne le eventuali operazioni.

Le valutazioni in argomento restringono il raggio di operatività di questi strumenti di guerra e ovviamente portano ad escludere lunghe galoppate aeree. Se si aggiunge che lo spazio aereo che sovrasta zone, comprensori o singoli edifici connotati da elevata criticità è interdetto non solo amministrativamente, ma è presidiato da armi convenzionali e tutelato elettronicamente, il campo di gioco subisce un ulteriore restringimento.

Le considerazioni appena fatte portano a dare un certo carattere locale a quel che è successo. Una storia di quartiere che lascia immaginare una secca alternativa: una permeazione dell’intelligence ucraina che ha “uffici” o collaboratori (o partner stranieri) nei dintorni della piazza Rossa oppure una fantasiosa compagine di eredi del Kgb che espone i luoghi sacri a rischi eccessivi pur di attribuire a Zelensky determinate iniziative. L’esame dei resti del drone potrebbe essere d’aiuto: l’identificazione del modello e la carica residua delle batterie di alimentazione potrebbero rivelare quanta “strada” aveva percorso, desumibile sulla base del consumo di energia…

Peso del carico, presumibile velocità media e qualche altra piccola informazione forse saprerebbero guidare l’apertura del compasso per tracciare i confini entro i quali si cela il punto di decollo dove qualcuno il drone lo ha portato e messo in funzione. Le esplosioni (due, una alle 2.27 e l’altra alle 2.43) evidenziano che il cielo sopra al Cremlino non è sicuro perché nulla avrebbe dovuto potersi avvicinare alla cupola del Senato russo o alla bandiera che sventola in prossimità dell’edificio in cui Putin ha un ufficio e un appartamento.

Sembrerebbe improbabile che la contraerea fosse l’unico mezzo a disposizione per scongiurare un attentato. Tra le stranezze c’è il pessimo tempismo del terrorista di turno che – dopo aver faticosamente scoperto come dribblare le protezioni – giochi la sua partita quando Zar Vlad è “fuori casa”…

Pretesti e vendette

Chi si prefigge il cui prodest non può certo prendere per buone le dichiarazioni diametralmente opposte dei contendenti. Il busillis è intricato: sono stati gli ucraini, i russi o un soggetto terzo interessato per i più diversi motivi all’escalation del conflitto?

L’impatto psicologico soffierebbe nelle vele dei guerrafondai di Mosca che – stanchi di presunti ozi di Capua – puntano alla soluzione finale di questa guerra. C’è poi chi lo classifica frutto di una azione dimostrativa nei confronti di chi ritiene di avere in mano il destino del pianeta, dimenticando che il gesto si tramuta in pretesto avversario e legittima il prosieguo della coventrizzazione delle città ucraine.

Qualcun altro lo vede come la prima casella di questo sanguinario gioco dell’oca dove si continua a tornare al “via” in un incessante lancio di dadi. Altri ancora lo indicano come uno spettacolare “coupe de théâtre” in grado di distogliere l’attenzione dalle troppe brutte storie che abbattono il morale dei russi: potrebbe essere la maniera migliore per disintegrare l’incubo dei soldati che – accampati a suo tempo nei pressi di Chernobyl – si sono contaminati scavando trincee nei terreni radioattivi e pescando e mangiando giganteschi pesci gatto che dovevano la loro stuzzicante dimensione ad una tanto terrificante quanto ovvia mutazione post-nucleare…

La colonna di fumo alzatasi sopra il Cremlino non è certo quella di un calumet della pace. C’è da aspettarsi – secondo la barbara regola dell’ “occhio per occhio” – uno strike nel cuore di Kiev? O non ci sarà nulla quasi a dimostrare – a dispetto delle accuse internazionali – che Putin non è un criminale di guerra?
 

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