Gli intellettuali palestinesi: «L’occupazione non finirà»

«È un ritorno allo status quo. Il piano protegge gli interessi israeliani e non presta attenzione a quelli palestinesi. Continuerà a essere un’occupazione terribile». Fathi Nimer, policy fellow di Al-Shabaka, un think-tank palestinese, valuta con rabbia e amarezza il piano di pace per Gaza, stilato dall’amministrazione americana, approvato dal premier israeliano Benjamin Netanyahu e sostenuto dalla quasi totalità della comunità internazionale. «Non risolve le condizioni materiali che hanno portato alla nascita di Hamas e di altri gruppi di resistenza. È un ritorno alla situazione attuale della Cisgiordania, che è una situazione di “gestione del conflitto” che lascia i palestinesi senza alcuna vera speranza per una soluzione politica, vista la quantità di leader israeliani apertamente contro uno stato palestinese», spiega Nimer da Ramallah, la “capitale” della Cisgiordania e sede dell’Autorità nazionale palestinese (Anp). I paesi che riconoscono lo stato di Palestina: cosa cambia davvero e le posizioni di chi è contrario Il piano di pace di Donald Trump fa riferimento alla cosiddetta soluzione dei due Stati, ma la vaghezza del contenuto come pure i condizionali utilizzati non sembrano aver convinto gli osservatori palestinesi, come pure la gente comune, che pur continuando a sperare di poter vivere un giorno in uno Stato indipendente, esclude che ora ci siano le condizioni perché questo possa avvenire. «Mentre procede lo sviluppo di Gaza e quando il programma di riforma dell’Anp verrà fedelmente portato avanti, potrebbero finalmente crearsi le condizioni per un percorso credibile verso l'autodeterminazione e la statualità palestinese, che riconosciamo come l'aspirazione del popolo palestinese», recita il punto 19 del piano. Quello che i palestinesi vedono è la loro vita quotidiana in Cisgiordania, fatta di checkpoint e strade sbarrate, raid dell’esercito e detenzioni amministrative, o, ai loro occhi, arresti arbitrari. La violenza dei coloni, che ha spinto molti abitanti della West Bank ad andarsene. La mancanza di servizi e la povertà dilagante, in particolare dopo il 7 ottobre e la decisione di Israele di vietare a centinaia di migliaia di palestinesi di lavorare in Israele. E naturalmente lo sterminio in corso a Gaza, che non si è fermato in questi giorni di intensa diplomazia, da cui si sentono completamente esclusi. Secondo il sondaggio di settembre del Jerusalem Media and Communication Center (Jmcc), i supporter della soluzione dei due stati sono il 26 per cento, in calo rispetto al 32 per cento registrato nel sondaggio di maggio. «Blocchiamo tutto con la Palestina nel cuore», il 22 settembre sciopero generale Ghassan Khatib, direttore del Jmcc ed ex ministro del lavoro dell’Anp, dice che i palestinesi hanno bisogno di vedere passi concreti verso la loro autodeterminazione: «Israele ci sta portando verso una realtà irreversibile, che è quella di uno Stato unico, in una situazione di apartheid». In numerose conversazioni di Domani con palestinesi a Gerusalemme e in Cisgiordania, la risposta più frequente alla domanda sul futuro della soluzione dei due Stati è «Quale Stato? Dove sarebbe questo stato palestinese?». Murad Muna, conosciuto libraio di Gerusalemme est, la cui famiglia gestisce da anni l’Educational Bookshop, dove è disponibile un’ampia bibliografia di libri sul conflitto arabo-israeliano, dice che in passato c’era ottimismo, ma che ormai le cose sono completamente cambiate. «Non ci siamo mai trovati in questa situazione, non riusciamo a vedere una soluzione», dice Muna. Due suoi familiari sono stati arrestati nei mesi scorsi dalla polizia israeliana, dopo due perquisizioni alla libreria e sequestro di libri e accusati di vendere libri che incitavano al terrorismo, per poi essere rilasciati su cauzione. I circa 50 libri sequestrati non sono ancora stati restituiti. Alla prestigiosa università palestinese Birzeit, a nord di Ramallah, l’umore era pessimo. Molti ragazzi si rifiutano di parlare. «Se ti dico cosa penso, mi arrestano», dice in inglese un giovane seduto sulle scale esterne di una delle tante facoltà. “Scuola per la Palestina”: una rete di insegnanti contro l’immobilismo del governo sul genocidio a Gaza Dalia, studentessa ventitreenne di biochimica, mostra sul suo cellulare le foto dei molti sostenitori di Hamas, che vinse le elezioni studentesche nel maggio del 2022. «Li hanno arrestati tutti. Che triste. Noi vogliamo uno stato indipendente, con libertà di movimento e giustizia per tutti. Ma non ci verrà permesso». Sua sorella Nihal, studentessa ventenne di diritto dice: «Abbiamo già fatto molte concessioni, ora basta!» Tra i pochi palestinesi a mostrare un barlume di ottimismo c’è Rana Salman, attivista di Combatants for Peace. «Ci rimane solo la speranza. Senza di quella annegheremmo nella disperazione. Continuiamo a sperare». Onu, riconoscimento della Palestina: la Francia s’è desta. Macron prova a salvare la faccia