Come si usa dire, uscire è più facile che entrare. L’America è evidentemente in procinto di lasciare l’Afghanistan e sembra che abbiamo fretta, che stiamo soltanto negoziando una strategia che non appaia come una sconfitta totale. Non ho accesso alla nostra intelligence militare, ma credo che porti cattive notizie. Dunque prima è meglio, dal momento che non vogliamo vedere gli elicotteri caricare i nostri diplomatici dai tetti dell’ambasciata di Kabul all’ultimo minuto. Eppure ci sono delle cose che dobbiamo fare prima di partire. La pianificazione logistica è necessaria in casi come questo, ma è necessaria anche un’opera di pianificazione morale.

Capire le ragioni

La prima cosa da fare è parlare con le persone che stiamo lasciando indietro, non solo con l’attuale governo. Saranno molto preoccupati e probabilmente spingono per trattenere alcuni soldati nel paese, in particolare l’aviazione, poiché l’esercito afghano non è in grado di combattere efficacemente senza copertura aerea.

Abbiamo un debito verso gli ufficiali afghani, anche se non so quantificarlo: le loro divisioni politiche e la corruzione economica sono due ragioni della necessità della nostra uscita. I nostri fallimenti sono una ragione maggiore: se fossimo rimasti fuori dall’Iraq e ci fossimo impegnati nella ricostruzione dell’Afghanistan che avevamo contribuito a devastare, il finale della storia oggi potrebbe essere molto diverso.

Dovremmo concentrarci di meno sull’Afghanistan ufficiale e di più su tutti gli uomini e le donne afghani che temono il dominio dei talebani. Per il loro bene dobbiamo negoziare alcuni limiti su ciò che arriverà quasi certamente: la reimposizione della disciplina religiosa. Questi limiti – forse qualche libertà sarà garantita nelle città più grandi – sono le concessioni chiave che dovremmo chiedere in cambio del ritiro delle truppe americane e della Nato. E dobbiamo lasciare aperta la possibilità di ritardare il ritiro “incondizionato” appena programmato per l’11 settembre 2021, se questo rafforza il nostro braccio nei negoziati. Forse la richiesta non è realistica dato l’equilibrio delle forze sul posto. Tuttavia dobbiamo provarci.

Dobbiamo anche parlare con tutti gli uomini e le donne – compresi democratici, sindacalisti e femministe – che sono usciti allo scoperto dopo la nostra invasione. Sono certo che non pensassero che fossimo là per il loro bene, ma speravano di essere protetti dalla nostra presenza e dal nuovo governo che abbiamo contribuito a formare. Hanno lavorato politicamente, sul campo, per cause che almeno in linea di principio sosteniamo. Potrebbero non volere affatto che ce ne andiamo o, più probabilmente, avranno delle cose da chiederci di fare prima di partire. Alcuni di loro, quelli che si aspettano di essere più a rischio, vorranno venire via con noi.

Ecco il nostro dovere più importante: quando ce ne andremo, dobbiamo portare con noi negli Stati Uniti tutti gli uomini e le donne, e le loro famiglie, che sono a rischio di persecuzione, prigionia o morte a causa della nostra invasione, direttamente, perché hanno collaborato con noi, ma anche indirettamente, perché hanno manifestato per la democrazia, organizzato sindacati o aperto scuole per ragazze sotto la nostra copertura. Non importa se era nostra intenzione offrire o meno questa copertura, anche se penso che molti americani che sono andati in Afghanistan volessero fare proprio questo. Si tratta di un obbligo morale assoluto. Probabilmente un gran numero di uomini e donne a rischio vorranno rimanere dove sono e continuare la loro lotta politica; dovremmo assicurarci che abbiano le risorse che possiamo fornire. Ma tutte le persone che vogliono andarsene, qualunque sia il loro numero, dovrebbero essere prese con le nostre truppe e i nostri diplomatici. Dovremmo prepararci ad accoglierli quando arriveranno e aiutarli a stabilirsi negli Stati Uniti.

Un esempio da seguire

Uscite come questa hanno una lunga storia, in gran parte disonorevole. Ma c’è un esempio da cui dovremmo trarre ispirazione: l’uscita della Gran Bretagna dalle colonie americane nel 1783. Dovettero riportare in Inghilterra decine di migliaia delle proprie truppe, su navi che ne potevano trasportarne solo poche centinaia alla volta. Ma riuscirono anche a portare via un gran numero di lealisti, i conservatori americani che sarebbero stati nei guai nella nuova repubblica e ai quali avevano promesso protezione. La maggior parte dei lealisti si raccolse nella città di New York (un numero minore fu evacuato dai porti meridionali) e aspettò – alcuni per mesi – prima che tutti fossero imbarcati: la maggior parte, circa 30mila, in Nuova Scozia, i più ricchi in Inghilterra. Circa tremila schiavi neri se ne andarono con i loro proprietari ma, come scrive lo storico Stanley Weintraub, «schiavi anziani, malati e altrimenti indifesi» furono «cinicamente abbandonati in libertà perché inabili al lavoro». Non so cosa significasse “libertà” a New York nel 1783. Immagino si dovrebbe dire che gli inglesi agirono in modo onorevole solo fino a un certo punto. I francesi fecero molto peggio quando lasciarono l’Algeria alla fine nel 1962, lasciandosi dietro migliaia di Harki, algerini musulmani che avevano combattuto per la Francia in unità di “autodifesa” appositamente organizzate o che avevano collaborato in altri modi. Anche a loro era stata promessa protezione e circa in 25mila riuscirono ad arrivare in Francia nel caotico esodo che seguì il riconoscimento francese dell’indipendenza algerina (altri arrivarono negli anni successivi).

Evitare un altro Vietnam

In Francia, scrive lo storico Todd Shepard, gli Harki sono stati confinati per anni in campi profughi. Decine di migliaia però sono stati abbandonati al loro destino: torturati e assassinati dai nazionalisti algerini.

Il comportamento degli americani in Vietnam non è stato molto migliore. Nei mesi precedenti al crollo del regime sudvietnamita nel 1975, gli americani sul campo, senza supporto ufficiale, aiutarono migliaia di vietnamiti a rischio a fuggire su aerei diretti negli Stati Uniti. I leader politici e militari americani però mentirono a sé stessi sulla nostra imminente sconfitta e non pianificarono un ritiro ordinato. Alla fine riuscimmo a malapena a portare indietro la nostra gente. Un gran numero di uomini e donne vietnamiti che avevano lavorato o combattuto con noi furono lasciati indietro. Molti furono uccisi dai comunisti vincitori; molti altri furono spediti nei campi di “rieducazione”; migliaia fuggirono da soli, via mare, pericolosamente, e alcuni di questi “migranti per mare” alla fine hanno trovato la loro strada verso gli Stati Uniti. Ma abbiamo deluso la maggior parte di quelli per cui dicevamo di combattere.

In Afghanistan abbiamo il tempo per pianificare la logistica e la moralità della nostra uscita. Pensare ai dettagli, farlo bene questa volta, può anche aiutarci a pensare più chiaramente, la prossima volta, a ciò che implica entrare, agli obblighi che derivano dalle guerre, sia giuste che ingiuste.

 

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