Nel pieno della crisi ucraina, mentre Mosca ammassava truppe e mezzi lungo il confine ucraino in vista della campagna militare che avrebbe lanciato il 24 febbraio, e dieci giorni prima del fatidico discorso di Vladimir Putin del 21 febbraio, la Casa Bianca rilasciava un documento strategico che è inevitabilmente rimasto nel cono d’ombra proiettato dalla crisi in Europa orientale. Rileggerlo può aiutare a comprendere la visione strategica degli Stati Uniti di Joe Biden.

Status quo asiatico

La nuova Indo-Pacific strategy dell’11 febbraio afferma che la Repubblica popolare cinese «sta perseguendo l’obiettivo di una sfera di influenza nell’Indo-Pacifico» per, infine, «diventare la potenza più importante del mondo». Pertanto, il raggio della capacità coercitiva cinese è oramai «globale», seppure il suo nucleo sia ancora da ricercare nella sua regione d’appartenenza.

In quest’area, i dossier critici sono presentati chiaramente dalla Casa Bianca: la coercizione economica operata nei confronti dell’Australia, il conflitto lungo la «linea di controllo effettivo» con l’India, la crescente pressione su Taiwan e «l’intimidazione dei vicini nel mar Cinese orientale e meridionale».

Secondo il documento, l’azione cinese non sarebbe, però, solo mirata a intimidire gli stati della regione, ma più in generale sarebbe ponderata per la modifica dello status quo esistente in Asia e nel mondo, una postura evidentemente revisionista secondo Biden. In questo senso, vale la pena notare, l’amministrazione Biden riconosce nell’ordine regionale asiatico, costruito a partire dal sistema di alleanze e partnership con al centro gli Stati Uniti ma sviluppatosi in una serie di istituzioni multilaterali come l’Asean, una porzione del più vasto ordine internazionale a guida americana edificato a partire dal 1945 e globalizzato dopo la vittoria della Guerra fredda.

Mantenere lo status quo asiatico, dunque, è funzionale a mantenere un ordine internazionale che Washington ritiene non solo equo e aperto poiché basato su regole ma – e, probabilmente, anzitutto – vantaggioso per la propria sicurezza e prosperità.

Competitor numero uno

La Indo-Pacific strategy giunge è il primo documento strategico effettivo e precede la National security strategy definitiva nonché la National defense strategy (una cui versione secretata è stata consegnata al Congresso e di cui si attende un sunto declassificato) e suggerendo che queste rifletteranno – e non viceversa come ci si potrebbe aspettare – la priorità attribuita da Biden e la sua amministrazione al quadrante indo-pacifico e alla Cina.

Il succinto fact sheet della prossima Defense strategy, pubblicato più di un mese dopo l’invasione russa, sembra confermare queste aspettative. Nel prospetto, si legge, il Pentagono si muoverà con urgenza per «sostenere e rafforzare la propria capacità di deterrenza, con la Repubblica popolare cinese in qualità di competitor più rilevante nonché sfida persistente per il Dipartimento».

Con queste premesse, possiamo attenderci che anche la Nuclear posture review, il documento che delinea la strategia nucleare americana, e la Missile defense review, il testo che definisce l’approccio americano sia alla difesa missilistica che agli attacchi disarmanti contro il nemico, elaborate congiuntamente alla Defense strategy, andranno di pari passo.

Continuità con Trump

Chiarito che, nonostante Mosca abbia lanciato la prima guerra convenzionale nel Vecchio continente dal 1945, la Casa Bianca sia determinata a non lasciare che gli eventi la distraggano dalle priorità di medio-lungo termine – il contenimento della Repubblica popolare cinese e il tentativo di dare forma alla sua ascesa e alla regione indo-pacifica – c’è da chiedersi se e in cosa l’approccio di Biden differisca da quello del suo predecessore, Donald Trump.

D’altronde, anche il precedente inquilino della Casa Bianca non aveva esitato nella National security strategy del 2017 a identificare gli sfidanti degli Stati Uniti in due grandi potenze, Cina e Russia. Tra esse, spiccava, ça va sans dire, la Rpc che stava «sfidando il potere, gli interessi e l’influenza americani per eroderne la prosperità e la sicurezza».

Nella regione indo-pacifica, la Cina stava «utilizzando metodi economici predatori per intimidire i propri vicini e militarizzando il Mar Cinese meridionale», «perseguendo l’obiettivo di una propria egemonia nella regione» contro il quale l’amministrazione Trump si faceva portavoce di una «free and open Indo-Pacific strategy».

Il sommario della National defense strategy nel 2018 riconosceva che, dopo un periodo di «atrofia strategica» in cui il predominio militare americano aveva subìto un’erosione, la principale minaccia alla sicurezza nazionale di Washington era diventata la rinnovata «competizione strategica tra gli stati». L’anno seguente l’Indo-Pacific strategy report del Pentagono confermava la Cina come «potenza revisionista», intenta a perseguire la propria «egemonia regionale nel breve periodo e una preminenza globale nel lungo».

Dal punto di vista retorico, dunque, i documenti strategici di Joseph Biden sembrano ricalcare quasi perfettamente quelli di Donald Trump, dimostrando che il passaggio di testimone presidenziale non sembra aver mutato significativamente la valutazione degli equilibri internazionali fatta dalla Casa Bianca. Gli stessi fattori strutturali che pesavano sulla politica estera di Trump continuano, infatti, a vincolare e dare forma a quella del suo successore.

Elementi di novità

Tuttalpiù, è nelle modalità di risposta che l’amministrazione attuale mostra discontinuità rispetto a quella precedente. Se l’obiettivo prefissato resta pressoché lo stesso, ovvero non più «di cambiare la Rpc» ma, piuttosto, di «plasmare l’ambiente strategico in cui essa opera» per costruire «un equilibrio di influenza» favorevole «agli Stati Uniti, agli alleati e partner» (Indo-Pacific strategy 2022), la strada scelta da Biden si snoda attraverso una maggiore enfasi data ad «alleanze modernizzate» e a «partnership flessibili». In questo senso, l’ampliamento del mandato del Quad, il dialogo di sicurezza tra Australia, Giappone, India e Stati Uniti, perché includa aree di policy non limitate alla difesa, e la firma del patto Aukus con Regno Unito e Australia, dimostrano un’attenzione alle iniziative e alle intese multilaterali – o minilaterali, quando coinvolgano un numero ridotto di attori.

Più in generale, il tentativo di includere anche altri attori all’interno del quadrilatero (Quad+) – Vietnam, Corea del Sud e Nuova Zelanda – e di riprendere in mano un progetto comprensivo di cooperazione economica – il cosiddetto Indo-Pacific economic framework – dopo che Trump aveva ordinato il ritiro americano dal Partenariato Trans-Pacifico (Tpp), dimostrano due elementi di novità rispetto alla politica del precedente inquilino della Casa Bianca.

Da un lato, la determinazione a coinvolgere e sostenere alleati e partner nella regione in iniziative che propongono un quadro di relazioni in cui sviluppare ulteriori collaborazioni bilaterali. Si veda, a tal proposito, la serie di accordi tra i membri di Quad e Aukus, come il Reciprocal access agreement nippo-australiano. Dall’altro la volontà di stabilire partnership che non si limitino alla mera dimensione militare ma che costruiscano comuni standard di cooperazione economica, tecnologica, sanitaria.

Infine, si noti che il nuovo approccio americano all’Indo-Pacifico passa anche per l’Asean, principale organizzazione regionale multilaterale, i cui leader a inizio maggio si sono incontrati proprio a Washington su invito di Biden.

Anche nel mezzo della guerra in Europa orientale, gli sviluppi dimostrano che la priorità di Biden rimane quella di coordinare una risposta regionale comune all’ascesa della Cina e alla crescente assertività di Pechino nell’Indo-Pacifico.

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