C’è sempre un momento memorabile del giorno delle elezioni, quello che verrà ricordato negli anni a venire come l’attimo esatto che ha dato il senso al passaggio politico. Quello di queste presidenziali è avvenuto ormai alle due di notte di Washington, quando Donald Trump, accompagnato da tutta la famiglia e di fronte ai suoi sostenitori, ha scandito con forza una serie di accuse precise in mezzo a frasi confuse: «Abbiamo vinto le elezioni. Il nostro obiettivo è assicurare l'integrità del voto: è una truffa. Andremo davanti alla Corte suprema. Vogliamo interrompere tutte le votazioni. Vinceremo, ma per me abbiamo già vinto». 

A person in a President Donald Trump costume joins people in Black Lives Matter Plaza near the White House in Washington, Tuesday, Nov. 3, 2020, on Election Day. (AP Photo/Susan Walsh)

Il vicepresidente Mike Pence è intervenuto quasi a placarlo, a fermarlo dal compiere quel passo: il richiamo alla Corte suprema, l’accusa di frode, e quella frase sibillina sul bloccare le elezioni. Il responsabile della campagna dello sfidante democratico, Joe Biden,ha definito le dichiarazioni «outrageous», letteralmente oltraggioso.

«È un chiaro tentativo di privare dei diritti democratici i cittadini americani», ha dichiarato la responsabile della campagna di Biden, Jennifer O’Malley Dillon. Nessun presidente secondo lei aveva tentato di togliere la voce ai cittadini in questo modo.

Il tema della soppressione del voto, cioè delle tecniche legali con cui viene ristretto il diritto di voto, è molto sentito negli Stati Uniti d’America. Molta letteratura accademica lo collega alle lotte civili per il diritto di voto ai neri e in generale alle minoranze. La commentatrice politica Heather Digby Parton ha scritto sulla rivista Salon un lungo contributo per spiegare come la soppressione del voto sia un tratto caratteristico della strategia politica repubblicana. Ma in qualche modo prima dell’era Trump era qualcosa di diverso: un tentativo di principio dell’elettorato conservatore bianco e propietario di mantenere stretto il proprio potere di fronte ad altri, venuti a reclamare il diritto di cittadinanza. 

Si tratta di una lotta feroce che è alle origini della vita politica americana, ma che  Digby Partont, solitamente non benevola con il Great old party, arriva a definire come condotta «in buona fede». La definizione è discutibile, ma significa che una volta era una questione di principio, seppure tra i peggiori principi possibili, non usata esplicitamente a fini elettorali. 

Alla grande espansione democratica dei diritti civili, i conservatori hanno risposto mettendo in piedi durante gli anni Ottanta una rete di avvocati pagati per contrastare, via tribunali e armati di sentenze, il voto delle minoranze, così come l’immigrazione e il rilascio dei documenti a chi aveva origine straniera. Curiosamente le motivazioni utilizzate dagli attivisti e dai legali conservatori nei loro tentativi di soppressione del voto sono esattamente quelle usate da Trump nel momentum di questa campagna elettorale: la necessità di prevenire la frode elettorale. 

Tuttavia nessuno mai era arrivato al punto di esprimere l’idea di impedire il voto deliberatamente e su larga scala durante una competizione elettorale. Trump accarezza questa ipotesi da tempo: durante la campagna ha preso ripetutamente di mira il voto postale, quindi quello anticipato, che tradizionalmente è prediletto dai votanti democratici. Lo è diventato ancora di più durante questa pandemia, quando alle tradizionali fratture tra i due grandi partiti si è aggiunto il contrasto sull'atteggiamento da tenere verso l’epidemia, di cui Trump ha negato più volte la gravità. 

Mai come in queste elezioni, insomma, il voto per posta è stato scelto da così tanti cittadini perché considerato più sicuro e mai così tanto da quelli progressisti, il cui candidato Joe Biden ha usato la mascherina di protezione anche come simbolo per differenziarsi dai negazionisti pro Trump. Per settimane da diverse parti degli Stati Uniti sono arrivate notizie di tentativi di bloccare il servizio postale. 

Anche quando si è recato di persona alle urne Trump ha dileggiato il voto per posta definendo il suo voto «molto sicuro», «perfetto, molto rigoroso, proprio secondo le regole». Parole che non sono scelte a caso, ma che tornano a evocare la possibilità di una frode elettorale.

Il presidente ha agito anche contro il suo partito, che in molti casi ha incoraggiato il voto via posta per paura di una bassa affluenza legata alla pandemia. 

Ieri il suo martellare costante per mesi ha toccato il suo climax in quella dichiarazione al tempo stesso confusa e precisa. Impedire il voto in quel momento significava impedire  la conta della maggiorparte del voto postale in stati come Michigan e Wisconsis dati a favore dello sfidante Biden. E infatti quando per pochi decimali percentuali l’ex vicrepresidente ha agguantato il vantaggio, Trump ha rilanciato cinguettando il complotto sui brogli che già circolava da ore tra i suoi sostenitori negli Stati Uniti, come in Italia. «Ieri sera», ha scritto, «ero in testa spesso solidamente, in molti Stati chiave (...) Poi, uno per uno, i vantaggi hanno iniziato a scomparire magicamente». «MOLTO STRANO», ha aggiunto urlando in maiuscolo, da complottista in capo.

Chi conosce Trump sa che quando batte su un tema in maniera ripetuta è perchè l’argomento è un asse della sua strategia, di solito costruita sulle radici più estreme ma profonde del partito repubblicano, che il presidente usa abilmente per trascinare i conservatori con sé. Questa notte ne è stato un altro esempio, in una America buia in cui le grida ai brogli si preparano con meticolosità e la lotta ormai è per il diritto basilare della democrazia.

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