Oggi la questione dell’isola è più complessa, articolata e ambigua che mai. Ma non sarà risolta con i proclami aggressivi del neopresidente americano, quanto piuttosto da un approccio in grado di migliorare le condizioni di vita della popolazione
Alle 4 del mattino del 30 marzo 1867, a Novo-Arkhangel’sk (l’odierna Sitka) , il segretario di stato americano William H. Seward e l’ambasciatore russo a Washington barone Edouard de Stoeckl firmarono l’atto che sanciva la cessione della remota, selvaggia e spopolata Alaska agli Stati Uniti, appena usciti dalla guerra civile, al modesto prezzo di 7,2 milioni di dollari (pari più o meno a 130 milioni odierni).
Le finanze russe erano state depauperate dalla sconfitta nella guerra di Crimea del 1856, e l’Alaska veniva considerata un peso improduttivo. Pur di non cederla alla dominante potenza britannica, che controllava le colonie canadesi, lo zar Alessandro II preferì venderla agli Stati Uniti, i quali avevano già acquisito la Louisiana dalla Francia nel 1803 per 15 milioni di dollari e la Florida nel 1819 in seguito a un accordo politico con la Spagna.
Finalizzato qualche mese dopo, il 18 ottobre (in seguito festeggiato come Alaska Day), ritenuto all’epoca dai russi un successo diplomatico e bollato invece dagli americani come la “follia di Seward”, solo dopo la scoperta dell’oro nel Klondike – avvenuta nel 1899 – l’Alaska Purchase, ovvero l’acquisto azzardato della desolata “ghiacciaia” Alaska, si rivelò un grande affare per gli Stati Uniti, sia per la presenza di enormi giacimenti auriferi e di idrocarburi sia come postazione militare strategica nell’Artico.
Sempre nel 1867 il presidente Andrew Johnson cercò di convincere anche la Danimarca a cedere la Groenlandia, colonia danese dal 1721, anno di fondazione di una compagnia commerciale e di una missione luterana da parte del vescovo Hans Egede: ma la trattativa venne affossata dal Congresso degli Stati Uniti, che non aveva ancora digerito quella che riteneva l’insensata compravendita dell’Alaska e che perciò continuava a ritardare il pagamento dei 7,2 milioni promessi allo zar.
Le recenti affermazioni del presidente americano Donald Trump a proposito del possibile acquisto della Groenlandia per motivi di sicurezza nazionale in chiave anti-Russia e anti-Cina, formulate coi toni non molto sofisticati caratteristici dell’estroverso tycoon, hanno suscitato sorpresa, a volte sarcasmo, scetticismo e la fulminea reazione del governo danese, che dopo anni di inerzia ha varato un nuovo piano da circa due milioni di euro per le spese destinate alla difesa dell’isola, spingendo la premier Mette Frederiksen a intraprendere un tour diplomatico in mezza Europa e il sovrano Federico X a modificare precipitosamente il regio stemma, ingrandendo non di poco la vignetta dell’orso polare – il simbolo della Groenlandia.
I precedenti
Nel mese di gennaio 2025, per di più, il figlio maggiore dello stesso Trump è atterrato nella capitale Nuuk – che adesso vanta un collegamento aereo diretto della United Airlines con New York – per distribuire ai poveri e ai senzatetto Inuit dei cappellini con la scritta Make America Great Again e per offrire loro pasti gratuiti. Al di là di questi aspetti estemporanei, come abbiamo visto le rivendicazioni trumpiane hanno però dei precedenti storici ben precisi.
In particolare, nel 1946, al termine della seconda guerra mondiale, il presidente Harry Truman si offrì di nuovo – ma inutilmente – di acquistare la Groenlandia in cambio di 100 milioni di dollari in lingotti d’oro, contando anche sul fatto che nell’aprile del 1940, a seguito dell’occupazione nazista della Danimarca, i governatori Axel Svane ed Eske Brune dichiararono l’immensa isola, quasi disabitata e ricoperta per l’80 per cento da una gigantesca calotta glaciale spessa fino a tre chilometri, temporaneamente indipendente dal governo di Copenhagen.
Subito dopo l’ambasciatore danese a Washington, Henrik Kauffmann, siglò il cosiddetto Accordo sulla difesa della Groenlandia, istituendo di fatto un protettorato statunitense che consentiva tra l’altro la costruzione di tre strategiche basi militari, tra cui la base aerea di Thule – oggi Pituffik. Il 27 aprile del 1951 venne ratificato un nuovo accordo, in seguito al quale gli Stati Uniti acconsentirono all’ingresso della Danimarca nella Nato.
Il ruolo di Copenhagen
Oggi la questione Groenlandia è più complessa, articolata e ambigua che mai. L’isola è ricchissima di petrolio, gas, minerali noti come “terre rare”, fondamentali per le apparecchiature tecnologiche (scandio, disprosio, ittrio, neodimio, erbio, promezio, ecc.), resi molto più accessibili dal riscaldamento globale e dal conseguente scioglimento dei ghiacci (fattore che in un prossimo futuro potrebbe anche rendere praticabile la cosiddetta rotta polare per il commercio navale). Il suo status giuridico è quello di territorio danese autonomo, che però delega ancora al governo di Copenhagen le fondamentali questioni di politica estera, di giustizia e di difesa.
Dal canto suo, il giovane e dinamico primo ministro Müte Egede, leader del partito ecologista Inuit Ataqatigiit, sembra voler finalmente proporre ai 60mila abitanti dell’isola un referendum indipendentista, già possibile dal 2009, in concomitanza con le prossime elezioni parlamentari di aprile. Egede ribadisce che la Groenlandia è dei groenlandesi ma non chiude la porta a possibili interlocuzioni con gli Stati Uniti sulla cooperazione e il commercio internazionale, dopo aver concesso alla Cina – che nel 2018 ha lanciato l’idea di una Polar Silk Road navale nelle acque artiche – licenze per gestire miniere di zinco e di uranio.
Quanto alla Danimarca, oggi parte sicuramente da una posizione di svantaggio, perché da un punto di vista geografico la Groenlandia fa parte del territorio nordamericano e la corona danese è giustamente identificata come l’ottusa potenza colonizzatrice che per secoli ha tartassato in ogni modo la locale cultura Inuit: ma resta comunque un paese membro della Nato nonché il principale sostegno finanziario della Groenlandia, che per il welfare dipende quasi totalmente dalle sovvenzioni danesi, pari a circa 500 milioni di euro all’anno.
Un paese dal futuro incerto
Nell’agosto del 2017 ho visitato il sud della Groenlandia (Kujataa), atterrando all’aeroporto di Narsarsuaq, costruito non a caso dall’esercito statunitense nel 1941 e aperto al traffico civile nel 1949. In effetti faceva piuttosto caldo, considerando che la temperatura massima era di 13 gradi centigradi. Le zone costiere sgombre dai ghiacci sono anguste e montagnose, perciò le strade sono quasi inesistenti e ci si sposta via acqua a bordo di gommoni, oppure in elicottero e in aereo.
I paesaggi sono sublimi e spettacolari: un esempio per tutti, le abbaglianti pareti alpinistiche, di granito nero liscio come vetro, del Nalumasortoq, la montagna a forma di libro aperto che domina il profondissimo fiordo di Tasermiut. Meravigliosi e idilliaci i panorami che circondano le struggenti rovine vichinghe di Gardar e di Brattahlid (la “scoperta” della Groenlandia viene attribuita a Erik il Rosso, attorno al 982 d.C.).
Ma mi ha impressionato anche, in negativo, l’atmosfera cupa di villaggi Inuit molto poveri come Sarloq e Tassiusaq, che sembrano popolati solo da bambini derelitti; mentre si respira un’aria un po’ meno plumbea in cittadine pittoresche come Nanortaliq (sede del museo diffuso di storia locale) e Qaqortoq.
Al di là delle speculazioni politiche e giornalistiche, dunque, a rendere nebuloso e incerto il futuro della Groenlandia, e a renderla potenzialmente sensibile alle lusinghe e ai proclami di grandeur di Donald Trump, sono proprio le condizioni precarie della popolazione Inuit (il 90 per cento del totale). È noto da tempo che a partire dagli anni Sessanta la Groenlandia ha fatto registrare il più alto tasso di suicidi al mondo, soprattutto fra i giovani Inuit tra i 15 e i 29 anni, tanto che quasi nessuna famiglia è sfuggita al fenomeno; forse meno noto è che l’isola annoveri anche la percentuale più alta di aborti.
Le cause sono più o meno le stesse di quelle che affliggono tutte le popolazioni autoctone del globo soggette a un lungo dominio coloniale, spogliate della loro memoria, della loro lingua e della loro cultura tradizionale e scaraventate in una modernizzazione alienante: alcolismo, povertà, depressione, malattie mentali dovute allo sradicamento e all’inurbamento forzato, per lo più in squallidi casermoni, di un popolo nomade di cacciatori e pescatori che rischia di perdere per sempre un’identità millenaria.
Se vuole esercitare in futuro un’influenza positiva sul destino della Groenlandia, il neo-presidente americano farebbe dunque sicuramente meglio a circondarsi di storici, antropologi e psicologi, piuttosto che di consiglieri economici e militari grazie ai quali rischia di destabilizzare in via definitiva una terra fragile e politicamente giovane, protesa all’autodeterminazione ma afflitta da un grave sconquasso culturale che continua a produrre ferite per le quali ancora nessuno – nemmeno i groenlandesi stessi – ha saputo trovare una cura efficace.
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