Vladimir Putin che si prende la centrale di Chernobyl, evocando un disastro che ha segnato generazioni, e che riporta la guerra in Europa, sollevando altri ricordi cupi negli europei: tutto questo suscita una condanna unanime da parte dell’occidente. Ma l’occidente, e l’Europa, non sono riusciti a frenare questa guerra, né con i negoziati né con le sanzioni. E adesso, per impedire che si estenda ancora, usano gli stessi strumenti: le parole, e le contromisure economiche. Ha ragione, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, quando dice che «l’unità è la nostra forza». L’unico progresso sostanziale, dal lato di un’Unione europea che assiste inerme a bombe e missili sull’Ucraina, è che la pressione russa costringe all’unanimità un fronte composito di paesi con interessi e attitudini diversi. Questa compattezza servirà tutta: l’obiettivo di Putin, e cioè ridisegnare l’ordine di sicurezza europeo, «destabilizzare l’Europa» come dice von der Leyen, viene percorso da tempo e ha altri focolai, nei Balcani ad esempio.

Esposizione a est

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Il versante orientale dell’Unione europea, Polonia e paesi baltici in particolare, sono i più esposti in questa crisi, da ogni punto di vista. Per ragioni storiche e geografiche, vogliono farsi scudo dalla Russia, e agire nel modo più duro possibile contro Vladimir Putin. Qui gli Stati Uniti hanno inviato migliaia di soldati, e qui, nell’Europa dell’est, la Nato consolida la propria presenza, sta in allerta: «Lo scopo è difensivo, non interverremo sul territorio ucraino», chiarisce il segretario della Nato, Jens Stoltenberg. Ma l’allerta è massima. Varsavia si prepara da giorni per l’esodo di rifugiati ucraini, e ormai altrettanto fa tutta l’Ue: «Speriamo che ci sia il minor numero di rifugiati possibile», dice von der Leyen, a capo di una Commissione che ha persino limitato il diritto di asilo; «ma siamo pronti», prosegue segnalando che la crisi ucraina ci riguarda. Il premier polacco Mateusz Morawiecki ha chiesto che il presidente ucraino Volodymyr Zelensky fosse invitato al Consiglio europeo straordinario che si tiene giovedì sera, proprio per blindare il supporto a Kiev.

La torsione populista

L’aggressione militare russa, combinata ai rischi che comporta per l’Ue, ha avuto l’effetto di smuovere persino i leader che finora erano stati più disposti al gioco di Putin. L’esempio più eclatante è quello di Viktor Orbán. Le sanzioni Ue richiedono l’approvazione all’unanimità, e il premier ungherese, che da tempo flirta con Mosca e Pechino, avrebbe potuto utilizzare il potere di veto. Invece qualcosa è cambiato: «L’unità europea sarà sostenibile», come lui stesso ha dichiarato oggi. Lo studioso ungherese Daniel Hegedus, che si occupa di Europa centrale nel German Marshall Fund, ritiene che quella di Orbán sia una «virata strategica». Il premier ungherese «ha iniziato a capire che la sua politica estera multivettoriale non era più sostenibile dopo l’ultimo incontro al Cremlino», dice Hegedus: «Era andato a Mosca sperando di aumentare le forniture di gas all’Ungheria, ma Putin non ha voluto concederglielo, e in qualche modo ha scelto di umiliarlo». Così il premier ungherese si è reso conto che «Putin è imprevedibile», e viste le minacce alla sicurezza, nonostante le relazioni amichevoli avute finora, «ha fatto una inversione di marcia». Poi è da vedere se l’allineamento dell’Ungheria sulle sanzioni corrisponderà alla richiesta di contropartite a Bruxelles. Ma intanto Polonia e Ungheria, le due discole dello stato di diritto, si ricompattano su Kiev.

Mediazioni e sanzioni

Giovedì sera il Consiglio europeo concorda il suo consenso politico unanime al nuovo pacchetto di sanzioni che venerdì i ministri degli Esteri, riuniti nel Consiglio Ue, dovranno formalizzare. Non sono servite, fin qui, le sanzioni occidentali: se lo scopo era dissuadere Putin, e non esprimere un blando dissenso, sono fallite. C’era da aspettarselo: né la prima tranche del 2014, né ulteriori iniziative, hanno impedito al Cremlino di rinfrescare la sua politica imperialista. Anche per volere di paesi come l’Italia, che hanno rivendicato un approccio «graduale», il primo pacchetto, in vigore prima degli attacchi armati di giovedì, non ha preso di mira obiettivi cruciali. La nuova tranche riguarda l’accesso ai mercati finanziari, i divieti di esportazione di alta tecnologia nel settore della raffinazione del petrolio, in quello aeronautico e in beni per usi bellici. Germania e Italia si sono opposte all’idea di intervenire anche sul sistema di pagamenti internazionali Swift. Anche di fronte all’attacco militare più sfrontato, i timori che le sanzioni si rivelino un boomerang aleggiano a Berlino come a Roma.

Schieramenti e fallimenti

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Ma escluso l’intervento militare diretto, l’Ue punta ancora sull’economia, non potendo puntare sul dialogo. Così fanno anche gli Usa: «Bloccheremo altre quattro grandi banche russe, ogni asset in America sarà congelato», ha detto Joe Biden. «Putin è l’aggressore, ha scelto questa guerra. Non intendo parlare con lui», ha precisato il presidente Usa. Il primo a subìre lo scotto del fallimento diplomatico è Emmanuel Macron: aveva tentato un dialogo con la Russia per evitare che l’Ue restasse schiacciata tra Mosca e Washington, ma ne è uscito beffato da Putin. Oggi ha detto non a caso che il Cremlino non mantiene la parola data, ha usato parole dure ed è andato a consultarsi con Nicolas Sarkozy, che a sua volta da presidente ha subìto umiliazioni da Putin. Mentre l’Europa fa i conti con la propria impotenza, gli schieramenti assumono scala globale. Il G7 stringe i legami, il «dittatore» – come lo ha definito Draghi – Recep Tayyp Erdogan, membro della Nato, si schiera con Kiev. E poi c’è la Cina estremamente ambigua, che ritiene «preconcetto» l’uso della parola “invasione”, e Taiwan che sta in allerta.

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