Shaul Arieli, ex comandante dell’esercito israeliano nella striscia di Gaza, espertissimo di mappe e negoziati mediorientali, non ha dubbi. «I vertici militari israeliani sarebbero pronti a chiudere l’operazione nella striscia, ma il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu vuole andare avanti. I motivi? Prettamente politici, vuole essere sicuro che nessuno formi una coalizione alternativa alla sua. Vuole superare le distanze con gli alleati delle destre e mettere insieme un nuovo governo, oppure andare all’elezione diretta del primo ministro, e lì non avrebbe rivali».

Mentre si supera la soglia dei dieci giorni di guerra fra Israele e Gaza – 219 i morti da parte palestinese e 12 quelli da parte israeliani finora – il premier Netanyahu continua a fare orecchie da mercante rispetto alle richieste internazionali di raggiungere al più presto una tregua. Lunedì è arrivato il duro monito di Joe Biden: secondo un comunicato della Casa Bianca, durante una conversazione telefonica il presidente americano avrebbe «trasmesso al primo ministro il messaggio che si aspetta una de-escalation significativa da oggi, in vista di un cessate il fuoco». Poche ore dopo, Netanyahu ha commentato: «Ringrazio il sostegno dell’amico presidente statunitense al diritto di Israele all’autodifesa».

Tenere Hamas a Gaza

Secondo Arieli è difficile capire cosa l’esercito possa ancora ottenere dal punto di vista strategico. «Senza un’invasione di terra non possiamo davvero sconfiggere Hamas. Potremmo radere tutto al suolo ma conosciamo quali sarebbero le conseguenze: non è nell’interesse di Israele avere migliaia di palestinesi che corrono verso la nostra frontiera in cerca di aiuti umanitari. Non è nell’interesse dell’esercito colpire le loro infrastrutture: ospedali, acqua, elettricità. Per il Likud (il partito di Netanyahu, ndr) la cosa migliore è tenere Hamas a Gaza, perpetuare la divisione politica con la West Bank, e indebolire Abu Mazen. È una situazione che aiuta a prevenire la formazione di un loro stato».

A margine di un incontro per illustrare il punto di vista israeliano a 70 rappresentanti diplomatici, svoltosi mercoledì nel quartier generale della difesa di Tel Aviv, noto come Kirya, Netanyahu ha detto: «Non stiamo qui a guardare il cronometro, per noi contano gli obiettivi dell’operazione. Quelle precedenti sono durate parecchio, è difficile stabilire una finestra temporale». Delle tre principali escalation con Gaza, quelle del 2008-2009, del 2012 e del 2014, soltanto quella del 2012 è durata meno di quella in corso (8 giorni). Quella attuale è anche ben lungi dall’essere stata la più sanguinosa – l’ultima, nel 2014, fece dieci volte più vittime palestinesi, in parte a causa dell’invasione di terra.

Secondo una fonte diplomatica di alto livello che ha partecipato all’incontro con Netanyahu, i toni del premier sarebbero stati relativamente tranquilli e lui sarebbe «riconoscente» per la reazione «comprensiva» della comunità internazionale. Avrebbe però espresso la necessità di «ristabilire la deterrenza» in modo da «prolungare il più a lungo possibile il periodo di quiete dopo il conflitto». «I razzi sono arrivati e ci siamo tutti spaventati», dice la fonte, «ma Netanyahu non può tirare troppo la corda prima di negoziare».

Interessi militari

Justin Bronk, che segue il conflitto per conto del think tank inglese Rusi, specializzato in sicurezza e difesa, dice che per Israele continuare l’operazione può anche servire interessi militari. «Dal 2014 Israele ha compilato una lunga lista di obiettivi militari legati ad Hamas e Jihad Islamica, e ora stanno cercando di colpirne il numero più alto possibile prima che la finestra diplomatica per portare avanti l’operazione si chiuda», dice. «Parliamo di bersagli come depositi di armi, tunnel, leader militari, infrastrutture di comunicazione, identificati nel corso di un lungo lavoro di intelligence».

Malgrado i razzi dei miliziani abbiano dimostrato di essere in grado di tenere sotto scacco Tel Aviv e il centro del paese, oltre che di propagare il conflitto nelle città arabo-israeliane, gli ufficiali dell’esercito sono soddisfatti del funzionamento di Iron Dome, il sistema di difesa anti-aereo. Le giornate di combattimenti in corso sono un test importante anche in vista di un futuro conflitto con la milizia sciita libanese Hezbollah, che dispone di un arsenale molto più significativo rispetto ai miliziani di Gaza. I quattro razzi piovuti lunedì dal Libano sul nord Israele hanno fatto nuovamente temere l’apertura di un secondo fronte – ma sarebbero stati lanciati da campi profughi palestinesi e non hanno causato danni.

«Il sistema Iron Dome sulla carta sarebbe in grado di intercettare pressoché tutti i razzi che i miliziani sono in grado di sparare», dice Bronk, «il suo limite è che fatica ad intercettare tanti lanci contemporaneamente, anche perché le batterie devono essere dispiegate su vari fronti per garantire la copertura geografica». Israele dispone di 10 batterie del sistema di difesa, ognuna delle quali dispone di 3 o 4 lanciarazzi, ciascuno in grado di lanciare 20 missili per le intercettazioni (ogni intercettazione costa 45mila dollari). Facendo il conto si evince che, in condizioni ideali, l’esercito sarebbe in grado di intercettare fino a 700-800 razzi contemporaneamente (i miliziani finora ne hanno lanciati 4mila, circa il 90 per cento sono stati intercettati). Ha funzionato ad oggi anche il muro sotterraneo edificato da Israele intorno alla striscia, per sventare infiltrazioni. In passato, come per esempio in occasione del rapimento del soldato Gilad Shalit nel 2006, i miliziani palestinesi hanno fatto uso di tunnel per compiere attacchi in territorio israeliano.

Deterrenza e occupazione

Lunedì Netanyahu ha anche ipotizzato – forse con una boutade – un ritorno in pianta stabile dell’esercito israeliano a Gaza. «Li puoi o conquistare – e questa è sempre un’opzione che teniamo aperta – oppure puoi lavorare per aumentare la deterrenza», ha detto. «Per ora stiamo sviluppando una forte deterrenza, ma devo dire che non escludiamo altre soluzioni». La striscia è stata sotto completo controllo israeliano dal 1967, quando venne conquistata dall’Egitto durante la Guerra dei sei giorni, fino al 2005, quando l’ex primo ministro Ariel Sharon ordinò il ritiro dei 9mila coloni. Arieli, che era comandante a Gaza nei primi anni Novanta, all’epoca del ridispiegamento militare seguito agli accordi di Oslo, scuote la testa pensando a un ritorno delle truppe israeliane. «Gestire 2 milioni di persone impoverite, con aspirazioni politiche proprie, e che per giunta hanno tutte le buone ragioni per avercela con Israele, è una cosa che non augurerei mai a nessuno di dover rifare».

 

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