Il Sudan entra nel terzo anno di conflitto nel silenzio assordante della comunità internazionale distratta da dazi di Trump e concentrata sul conflitto ucraino o apparentemente assuefatta alla carneficina quotidiana della popolazione di Gaza. Eppure, lo si ripete da almeno un anno, la situazione generata dallo spaventoso conflitto sudanese rappresenta la peggiore crisi umanitaria al mondo. Secondo l’Onu sarebbero circa 13 milioni gli individui costretti a fuggire a causa della guerra, ma alcuni osservatori come l’African Center for Strategic Studies, arrivano a contarne 14 di cui quasi 4 nei paesi limitrofi. Il peso che i profughi rappresentano per stati vicini fragili, è enorme, tanto da rendere una vastissima area che va dal Ciad all’Etiopia e dall’Egitto all’Uganda passando per Centrafrica e Libia, ancora più instabile di quanto non sia già. Paesi come il Sud Sudan, ad esempio, attraversato da una crisi allarmante che per alcuni prelude al ritorno alla guerra civile, ospita da solo oltre 1,1 milioni di fuggitivi.

Strategia di morte

Il conflitto tra le Forze armate sudanesi (Saf), comandate dal generale al Burhan, e le Forze di supporto rapido (Rsf), guidate dal generale Mohamed Dagalo, detto Hemedti, è scoppiato ufficialmente il 15 aprile del 2023 ma è il proseguimento di una strategia per ostacolare il processo di democratizzazione innescato nel 2019. Il Sudan, dopo decenni di durissima dittatura di stampo islamico estremo instaurata da Omar al Bashir, atteso all’Aja per crimini di guerra e contro l’umanità, si era risvegliato nell’aprile del 2019 in una nuova situazione politica. Dopo mesi di proteste la società civile era riuscita inaspettatamente a ottenere la cacciata del despota e l’avvio di un governo per la prima volta composto, seppure al 50 per cento, da civili. Il felice esperimento durò fino all’autunno del 2021 quando, nel mezzo di un percorso che avrebbe dovuto condurre al primo esecutivo al 100 percento formato da civili, il generale al Burhan inscenò un colpo di stato e avocò a sé tutto il potere. Il suo ex sodale Hemedti, non interessato a far confluire le sue milizie nell’esercito, ad aprile 2023 decise di muovergli guerra.

Da allora nessuno dei ripetuti colloqui di pace organizzati da Usa e Arabia Saudita a Gedda, né quelli voluti da altri sponsor, hanno avuto il minimo effetto e si teme che vada a vuoto anche la conferenza di Londra predisposta dall’Inghilterra e co-organizzata da Germania, Francia, Ue e Unione Africana, che proprio in questi giorni punta a riportare il Sudan al centro dell’agenda internazionale: la scelta di escludere dal tavolo le due parti in conflitto, lascia più di qualche dubbio sul risultato.

Sul campo si continua a combattere e a uccidere senza soluzione di continuità. Le Rsf hanno attaccato i campi profughi di Zamzam nel Darfur settentrionale, uccidendo centinaia di persone tra l'11 e il 12 aprile. L’assalto ha causato, tra l’altro, l’esodo di circa 80mila nuclei familiari. In due anni di guerra si calcola che i morti siano almeno 150mila, decine di migliaia uccisi direttamente dalle armi, il resto da fame, malattie ed epidemie, unitamente ad assenza pressoché totale di assistenza medica.

«Il conflitto in Sudan – spiega Vittorio Oppizzi, responsabile dei programmi di Medici Senza Frontiere in Sudan, appena tornato dal Darfur – è una guerra contro la popolazione civile. Il rischio di morire andando a fare la spesa o stando in ospedale è sempre altissimo. Msf supporta più di 30 strutture in tutto il paese, ma ci troviamo sempre più spesso a dover scegliere a cosa dare priorità, fino ad ora gli interventi contro le epidemie hanno sempre avuto la precedenza data, ad esempio, la spaventosa diffusione di colera, ma ora si diffondono altre epidemie come il morbillo. Senza l’impegno delle parti e di tutti gli stati che possono influenzare, non c’è speranza».

Nel caos assoluto, che vede la partecipazione al conflitto addirittura di mercenari colombiani al soldo delle Rsf, con apparentamenti di nazioni sia vicine che lontane (dietro alle Rsf ci sono gli Emirati Arabi mentre l’Egitto rappresenta il principale alleato di Burhan) e interessi fortissimi (le miniere d’oro, con il metallo ai massimi storici, sono molto appetite), la popolazione civile vive il proprio dramma senza conquistare mai le prime pagine.

A occuparsene regolarmente sono alcune organizzazioni locali, prime fra tutte le Emergency Response Rooms (Err), associazioni di mutuo soccorso candidate al Nobel per la pace lo scorso ottobre. Domani ha raggiunto al telefono a Khartoum l’artista Duaa Tariq, attivista delle Err. «La situazione – spiega interrotta dal rumore di esplosioni – è migliorata da quando le Rsf se ne sono andate (alla fine di marzo, l’esercito ha riconquistato Khartoum, ndr), i servizi di base sono stati ripristinati, i mercati riaprono e c’è un maggiore accesso al cibo e alle cure mediche. Purtroppo la sicurezza è ancora poco garantita e assistiamo a molte uccisioni e processi sommari nelle strade. Con le Err ci stiamo dedicando alla ricostruzione e a riabilitare la comunità. Stiamo prendendo in consegna scuole pubbliche per trasformarle in centri per i bambini per prepararli a un ritorno nelle aule (da due anni la quasi totalità delle scuole sono chiuse, ndr). Ora i prezzi del cibo sono un po’ diminuiti e possiamo dare da mangiare a più persone, il bisogno è tanto perché stanno tornando molti sfollati».

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