Con le armi. Nella carne. Con la fame. Con l’assenza di sonno. Con la perdita di un genitore, di una casa, di una scuola. Con l’impossibilità di fare sogni, giocare, immaginare il futuro. Ma anche, e soprattutto, nel pensiero e nell’anima. Sono tutti i modi diversi con cui la guerra può colpire un bambino o una bambina. Li elenca Damiano Rizzi, presidente di Soleterre Onlus, quando risponde al telefono da Gerusalemme.

«La guerra oggi colpisce i bambini palestinesi condannandoli a vivere in una prigione a cielo aperto, dove ogni giorno si può morire anche senza spari: per mancanza di cure, acqua, empatia. Il dolore fisico è tangibile, ma sono i traumi invisibili quelli che segnano per sempre. Oltre 473 milioni di bambini, quasi uno su cinque nel mondo, vivono in aree di conflitto. Solo in Ucraina sono 7,5 milioni, in Palestina oltre 2,2 milioni».

Bambini che, quando sopravvivono, portano addosso traumi che non se ne vanno facilmente, prendono la forma di cicatrici destinate a restare. È anche su quelle che lavora Damiano Rizzi, insieme allo staff di Soleterre, nei diversi contesti di guerra in cui è presente, tra cui Ucraina e Palestina. Secondo le stime globali, circa il 25 per cento dei bambini che vivono in aree di conflitto soffre di disturbo post-traumatico da stress (Ptsd).

«In Ucraina questa percentuale è significativamente più alta, raggiungendo il 35 per cento, mentre in Palestina arriva addirittura al 40 per cento», spiega. «Dati che evidenziano una carenza drammatica di supporto psicologico per i più piccoli. In Ucraina, nonostante tre anni di guerra, molti bambini riescono ancora ad accedere a zone relativamente sicure. In Palestina, invece, non c’è tregua da oltre 70 anni e i bambini nascono e crescono sotto occupazione, in un contesto di violenza costante.

La combinazione di un trauma così prolungato e l’assenza di un adeguato sostegno psicologico amplifica enormemente il rischio di conseguenze a lungo termine. Le strutture sanitarie palestinesi sono in gran parte fuori uso, solo il 15 per cento dei bambini con disturbi da Ptsd riceve supporto psicologico, contro il 20 per cento in Ucraina, numeri troppo bassi per far fronte a un’emergenza tanto grave».

«Questa guerra non ha tempo per le lacrime dei bambini», scrive la poetessa palestinese Hend Joudah. Accade anche quando sono proprio loro a pagare il prezzo più alto. Ne sono morti quasi 20mila, secondo le stime del ministero della Sanità di Gaza. Le madri raccontano di figli stremati che aspettano solo il giorno per morire.

Secondo l’ultimo report dell’Integrated Food Security Phase Classification, oltre il 93 per cento delle bambine e dei bambini di Gaza sono a rischio critico di carestia. Significa che tutti i minori non hanno cibo, come raccontano le immagini che arrivano ogni giorno dalla Striscia di Gaza, dove bambini già pelle e ossa si disperano con pentole vuote in mano alla ricerca di qualcosa da mangiare.

Un milione rischia di morire di fame o malattia (dati Save The Children), mentre gli aiuti umanitari vengono bloccati a pochi metri da loro e quando vengono fatti entrare la quantità è del tutto irrisoria. Così, cibo e medicinali diventano armi di guerra. «Molti bambini in Palestina hanno incubi, disturbi del sonno, mutismo selettivo, comportamenti regressivi. Spesso non piangono nemmeno più. Perché non hanno più chi li consoli», continua Damiano Rizzi, che a Beit Jala, 10 chilometri a sud di Gerusalemme, lavora con Soleterre nell’unico ospedale pubblico pediatrico oncologico ancora operativo in Palestina, un presidio vitale per bambini che affrontano leucemie e altre malattie croniche.

«Stiamo inoltre sostenendo l’apertura di due centri fondamentali: uno dedicato alla cura dei traumi psichici dei minori e del personale sanitario impiegato in questa emergenza; e un altro per trapianti di midollo a Ramallah, che rappresenta l’unica speranza di sopravvivenza per molti piccoli pazienti costretti a una lotta disperata per la vita. In un contesto dove ogni giorno è una sfida, questi centri non sono solo strutture: sono una promessa di futuro e di speranza».

Oggi in Palestina ci sono bambini che si sentono in colpa per essere sopravvissuti ai loro genitori o che non trovano un senso alla loro esistenza perché conoscono solo la violenza. Da quando sono nati. «Nel caso della “sindrome palestinese”, parliamo di un tessuto di ansia, stress cronico e depressione che avvolge intere generazioni di bambini, nati e cresciuti nella paura costante della guerra», conclude Rizzi.

«Le neuroscienze ci avvertono: lo stress prolungato nei primi anni di vita può alterare lo sviluppo cerebrale. Serve una risposta che vada oltre l’emergenza umanitaria: una risposta psicologica, profonda e continuativa. Perché guarire non è solo possibile, è doveroso. È il primo passo per ricostruire un futuro in cui queste generazioni possano vivere, non solo sopravvivere».

© Riproduzione riservata