Il primo ministro israeliano, Naftali Bennett, ha incontrato martedì il presidente egiziano, Abdel Fattah al Sisi, e il principe ereditario di Abu Dhabi, Mohammed bin Zayed, in un summit trilaterale a sorpresa nella località di Sharm El Sheikh, vicino al confine con lo stato ebraico.

L’incontro – il primo in assoluto in questo format – testimonia ancora una volta il crescente livello di cooperazione fra Israele e mondo arabo, fa luce su possibili trattative in corso nel quadrante mediorientale per rispondere agli aumenti dei prezzi dell’energia in seguito alla guerra in Ucraina, e lancia un messaggio agli Stati Uniti per ammonirli riguardo all’imminente ritorno all’accordo sul nucleare iraniano.

Oltre a confermare, ancora una volta, l’eclissarsi della questione palestinese nelle agende della regione. La presidenza egiziana ha fatto sapere in un comunicato che i tre leader avrebbero discusso «le ripercussioni degli sviluppi nel mondo, soprattutto rispetto a energia, stabilità dei mercati, e sicurezza alimentare». Secondo indiscrezioni del Wall Street Journal, i leader di Emirati Arabi e Arabia Saudita avrebbero ignorato, nelle settimane trascorse dall’inizio della guerra in Ucraina, insistenti tentativi di contatto da parte della Casa Bianca, per sfuggire alla richiesta di Joe Biden di aumentare la produzione di petrolio dopo l’interruzione delle importazioni dalla Russia. La stessa causa viene perorata anche dall’alleato israeliano.

La problematica della sicurezza alimentare riguarda invece molto da vicino l’Egitto, che è il più grande importatore di grano al mondo. Già prima degli aumenti dei prezzi dovuti alla guerra fra Kiev e Mosca, il Cairo viveva una crisi strutturale dovuta a vari fattori.

In primis, la crescita demografica imponente – la popolazione egiziana secondo le stime potrebbe raggiungere 190 milioni nel 2050. Ma anche la scarsità di risorse idriche, aggravata dal conflitto con l’Etiopia sulla diga Gerd.

Per alleggerire i costi che gravano sulle casse dello stato, la scorsa estate al Sisi ha annunciato possibili tagli ai sussidi per il pane, una misura senza precedenti dal 1977 (quando l’allora presidente Anwar Sadat fu costretto a fare marcia indietro per le proteste). Il Cairo ora confida anche su Israele e Eau per trovare fonti di approvvigionamento di grano alternative a Russia e Ucraina.

Fronte comune sull’Iran

Ma più dei temi di discussione dichiarati nei comunicati ufficiali – avari di notizie sia da parte israeliana, sia da parte emiratina ed egiziana – il tempismo dell’incontro tradisce la volontà di mandare un messaggio a Washington sul dossier iraniano. Sia Abu Dhabi che Tel Aviv si oppongono al ritorno all’accordo sul nucleare nato nel 2015, ma revocato tre anni più tardi dall’ex presidente americano Donald Trump.

Proprio l’Iran era stato al centro della visita di Bennett ad Abu Dhabi lo scorso dicembre, il primo viaggio ufficiale di un leader israeliano negli Emirati. A preoccupare particolarmente nelle ultime settimane è la possibilità che gli Stati Uniti decidano, nell’ambito della nuova intesa, di rimuovere il corpo delle Guardie della rivoluzione islamica dalla lista delle organizzazioni terroristiche.

Lo scorso venerdì Bennett e il ministro degli Esteri, Yair Lapid, si sono espressi duramente al riguardo. «Il corpo delle Guardie della rivoluzione islamica è un’organizzazione terroristica che ha assassinato migliaia di persone, compresi degli americani. Ci rifiutiamo di credere che gli Stati Uniti possano rivedere tale designazione», hanno scritto in un comunicato e sui canali social.

I due alleati di governo hanno poi elencato le organizzazioni nemiche sostenute da Teheran nella regione. «Le Guardie sono Hezbollah in Libano, sono la Jihad Islamica a Gaza, sono gli Houthi in Yemen, sono le milizie in Iraq», hanno protestato. Secondo fonti del giornale conservatore israeliano Jerusalem Post, l’ipotesi di una riabilitazione viene vissuta «come un grande shock» anche negli Emirati, preoccupati del conflitto per procura in Yemen. Ecco allora che l’incontro di Sharm El Sheikh si configura come un tentativo di fare fronte comune.

L’effetto Abramo

Abu Dhabi e Tel Aviv intrattengono relazioni ufficiali soltanto dall’autunno 2020, con l’avvento dei cosiddetti accordi di Abramo (già allora contò parecchio il nemico comune iraniano). Il processo di normalizzazione delle relazioni fra Israele e il mondo arabo ha poi coinvolto Bahrein, Marocco e Sudan.

L’effetto però si è fatto sentire anche su paesi che avevano già stretto accordi di pace in passato con lo stato ebraico, ma con cui le relazioni rimanevano fredde, come la Giordania e lo stesso Egitto. Amman e il Cairo hanno messo fine allo stato di guerra con Tel Aviv rispettivamente nel 1994 e nel 1979, ma hanno a lungo limitato gli scambi allo stretto necessario.

Come conferma lo stesso summit di ieri a Sharm El Sheikh, nell’ultimo anno e mezzo circa il Cairo ha dimostrato una disponibilità e trasparenza senza precedenti nell’aumentare la cooperazione col vicino settentrionale. Ha autorizzato collegamenti aerei regolari, inviato un ministro in Israele, e organizzato l’incontro fra uomini d’affari israeliani ed egiziani più grande degli ultimi vent’anni. In occasione della prima visita di Bennett in Egitto, lo scorso settembre, la bandiera israeliana è stata messa in bella mostra dietro ai due leader: all’epoca di Hosni Mubarak e Benjamin Netanyahu non era a favore di telecamera.

 

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