È il 28 agosto 2022, cadono alcuni ordigni sulla centrale atomica di Zaporizhzhia. Da una parte gli ucraini scacciati dall’invasore; dall’altra gli invasori che l’hanno occupata. Chi la sta prendendo di mira? Da Mosca si dice che sono gli ucraini, nel tentativo di riconquistarla; da Kiev si dice che sono i russi, nel tentativo di danneggiarla. Le due verità, come spesso in questi mesi, si ergono opposte e inconciliabili, e a noi, spettatori del dramma, è chiaro che, senza avere due occhi sul posto, è impossibile sapere chi ha ragione.

L’incertezza non è una generica confusione tra le propagande di guerra, ma ha dei risvolti pratici immediati, d’interesse per tutti e non solo per le parti dirette al conflitto: il collasso di una centrale nucleare, infatti, riguarda tutti, è una tragedia immane che travalica i confini dei due stati in guerra ma tocca la vita di milioni di persone e l’ambiente di decine di stati. Possono gli altri stati, che sono fuori dal conflitto, fare qualcosa? Possono vederci chiaro, in mezzo a questa carneficina, per scongiurare una tragedia nucleare?

La logica d’inchiesta

La domanda se la pongono in tanti, e l’Aiea – l’Agenzia internazionale per l’energia atomica delle Nazioni unite – si mobilita per capire se l’impianto è in grado di funzionare. Così si forma una missione internazionale, del personale tecnico qualificato viene scelto per ispezionare la centrale, si cercano a tal fine dei profili che garantiscano ai russi occupanti di non essere coinvolti ai fini di attività di spionaggio, ma solamente per capire cosa sta succedendo sul campo e per avere informazioni chiare. Perché per facilitare soluzioni politiche che evitino che la centrale diventi un campo di battaglia è importante capire cosa sta accadendo, e quando la logica che comanda uno scenario è quello della diffidenza reciproca, la terzietà delle Nazioni unite e dei suoi organi torna a essere invocata e a essere centrale.

È la logica della “commissione d’inchiesta”, dell’accertamento dei fatti, della neutralità tra i rispettivi fronti, per raggiungere alcune, fondamentali, certezze per scongiurare una tragedia – il collasso di una centrale atomica gigantesca posta in mezzo all’Europa, che non è nell’interesse di nessuno.

Le Nazioni unite, i suoi organi e le sue agenzie sono da sempre implicati in questo difficile lavoro. Spesso in silenzio, lo svolgono costantemente, negli scenari più diversi. È una delle ragioni per cui l’Onu c’è e continuerà a esistere, nonostante i tanti difetti che molti, spesso, mettono in luce: il bisogno di tecnici di alto profilo, di esperti, di operatori che possano muoversi sul campo, anche se rischioso, e che aiutino a orientarsi tra retoriche partigiane e a sfuggire da opinioni affrettate, forti e decise – ma scorrette.

Il caso siriano

Un caso clamoroso di questa dinamica è emerso alcuni anni fa, agli inizi della crisi siriana. Siamo nel 2012, e il presidente degli Stati Uniti Barack Obama aveva tracciato una famosa linea rossa, superata la quale gli Usa sarebbero intervenuti militarmente contro l’esercito siriano. La linea rossa era data dall’uso delle armi chimiche contro i ribelli, un uso che a detta di diverse agenzie e organizzazioni private era ormai comprovato.

Negli stessi giorni rimbalzò tuttavia un’idea diversa. Questa volta non proveniva da un sito internet o da un’agenzia privata di spionaggio, bensì da Carla Del Ponte, già procuratrice del Tribunale internazionale penale per la ex-Jugoslavia, che in qualità di membro della Commissione Onu sui crimini di guerra commessi in Siria rilasciò pubblicamente diverse interviste in cui sosteneva che sì, ormai vi era certezza che il letale e vietato gas sarin fosse usato in Siria, ma che le prove di cui disponevano portavano a dire che lo stessero usando i ribelli siriani, non le forze governative di Assad.

La comunità internazionale alzò le orecchie, annusò una possibile falsa bandiera, pretestuosa, americana, con fermezza chiese di vederci chiaro prima di avallare l’intervento americano diretto in un paese straniero, in violazione della Carta delle Nazioni unite. In quei giorni la Commissione Onu chiese di accedere ai siti della guerra civile, il governo siriano si dichiarò disponibile a sospendere le operazioni nelle zone interessate dalla visita, ma i ribelli presero tempo e inizialmente non collaborarono.

Ancora una volta la battaglia delle informazioni ci confuse: da una parte la certezza di alcune agenzie private di spionaggio; dall’altra i dubbi delle Nazioni unite che non trovano cooperazione tra le fazioni ribelli al regime siriano di Assad. La questione, poi, si smorzò, lo stesso Obama in un articolo su The Atlantic parlò del mancato supporto della comunità internazionale a uno scenario di invasione della Siria, e di linea rossa non parlò più nessuno.

Questi sono solo due esempi del ruolo efficace e necessario che le Nazioni unite possono avere e continuano a giocare negli scenari in cui la posta in gioco è altissima, e in cui la divisione e la contrapposizione tra le parti è tale per cui l’accertamento dei fatti e della realtà sul campo è di primaria importanza per farsi un’opinione e, quindi, decidere.

Necessità di attori terzi

Nell’epoca delle notizie false e della facile grancassa online delle più strampalate teorie complottiste, che ci sia qualcuno che prova a ergersi al di sopra dei blocchi d’interesse, al di sopra dei sospetti delle crisi provocate, delle bandiere false, delle propagande di guerra, è quanto di più essenziale ci possa essere per preservare la pace. È come se ci fossero alcuni, pochi, fini ritenuti così importanti da riuscire a far convergere la comunità internazionale sulla necessità di informazioni certe: quando di mezzo ci sono operazioni militari, tragedie umanitarie o possibili disastri atomici, è meglio per tutti poter contare su un attore terzo che ci aiuti a capire cosa sta accadendo davvero.

È importante non solo per gli stati, ma anche per il potere dal basso, del popolo, delle persone comuni, di chi deve orientare le proprie pressioni e i propri voti, in altre parole, per la democrazia: una corretta informazione, una corretta conoscenza dei fatti, è la prima e necessaria condizione per capire le migliori opzioni politiche da intraprendere.

Ovviamente non basta il prestigio e il nome delle Nazioni unite per rendere una commissione d’inchiesta o una missione sul campo efficace e autorevole. Ricordiamo tutti la fatica con cui la Cina accettò di aprire le porte del laboratorio chimico di Wuhan alla commissione d’inchiesta che nel 2021 visitò il laboratorio chimico. Dieci ricercatori designati dall’Oms, diversi da scienziati cinesi, alcuni esperti della Fao e della Woah, l’Organizzazione mondiale della salute animale, furono inviati ad accertare il possibile ruolo del laboratorio nella diffusione del coronavirus più famoso al mondo.

La Cina tuttavia non collaborò pienamente con la missione, venne dato un tempo di accesso ai siti limitatissimo, e il rapporto finale della commissione d’inchiesta fu una delusione: era, infatti, pieno di possibilità, di possibili cause e possibili errori, ma non vi erano certezze riguardo all’origine e alla diffusione del coronavirus.

Procedimenti negoziali

Non basta l’autorità per essere convincenti; occorre anche che le missioni sul campo siano messe nelle condizioni di lavorare in modo indipendente ed efficace, con pieno accesso ai siti e ai dati rilevanti ai fini della missione e, quindi, con piena collaborazione da parte del governo ospitante. Una piena collaborazione che allora la Cina faticò a dare e che, oggi, la Russia occupante la centrale di Zaporizhzhia, fa fatica a garantire per i tempi necessari secondo i tecnici.

L’autorevolezza di queste missioni, poi, è data dal prestigio e dalla reputazione delle persone coinvolte. Il procedimento di selezione delle persone partecipanti raramente segue logiche puramente meritocratiche, ma si svolge come un negoziato in cui tutte le parti interessate (organizzazione internazionale, governo ospite, possibili altri governi interessati all’azione della commissione) si muovono indicando nomi, ponendo dei veti, contestando l’indipendenza o autorevolezza dei profili indicati.

Si tratta di procedimenti negoziali, tendenzialmente paritetici, in cui ogni parte ha diritto a mettere qualcuno di propria fiducia, e che seguono anche le banali regole del calcetto al campo sotto casa (“tu scegline uno che non mi sia proprio sgradito, ma il prossimo lo scelgo io”) dove, ancora una volta, gli alti funzionari delle Nazioni unite, dei loro organi e delle loro agenzie svolgono un ruolo di primo piano.

Non è raro, infatti, che nelle formazioni di queste commissioni i veti incrociati siano troppi e che non si riesca a raggiungere un accordo. Nell’impasse che spesso si crea in questa attività, tocca ai funzionari di più alto rango delle Nazioni unite parlare, incontrare, capire le esigenze e, mediando, proporre e trovare soluzioni e nomi che possano andare bene (o, meglio, non essere indigesti) a tutti. Anche di questo si occupano le Nazioni unite e i suoi alti funzionari, benché se ne sappia ben poco.

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