Sono tante le somiglianze tra il contenzioso sfociato nell’invasione russa dell’Ucraina e quello che oppone la Repubblica popolare cinese a Taiwan. La più inquietante è l’incapacità della comunità internazionale di disinnescare queste tensioni. E così l’assenza di mediatori imparziali rischia di riprodurre nel Pacifico occidentale la tragedia che sta vivendo l’Europa orientale.

Ufficialmente nessuno la vuole, eppure tutti si stanno preparando alla guerra. Il ministro della Difesa taiwanese, il generale Chiu Kuo-cheng, ha spiegato al parlamento di Taipei che «la lezione che possiamo trarre dalla guerra Russia-Ucraina è che, nonostante i suoi svantaggi militari, l’Ucraina è ancora in grado di utilizzare l’unicità del suo campo di battaglia interno e le capacità asimmetriche per resistere a un nemico gigante come la Russia».

E la sottosegretaria alla Difesa americana, Mara Karlin, ha sostenuto al Senato Usa che «Taiwan deve fare tutto il possibile per costruire capacità asimmetriche, affinché la sua popolazione possa essere pronta il più rapidamente possibile se la Cina dovesse scegliere violare la sua sovranità».

D’altro canto l’Esercito popolare di liberazione (Epl) – la cui marina sta varando una nuova nave da guerra ogni due settimane – continua le sortite dei suoi caccia all’interno delle zone di identificazione di difesa aerea (Adiz) taiwanesi, per testare le difese del nemico, mentre nelle acque sottostanti si affollano portaerei e sottomarini cinesi e occidentali.

Un esempio di democrazia

Taiwan – dove nel 1949 si sono rifugiati i nazionalisti del generale Chiang Kai-shek sconfitti nella guerra civile – ha un governo indipendente di fatto e, dall’abolizione della legge marziale nel 1986, il suo sistema politico si è trasformato in una vivace democrazia multipartitica i cui cittadini hanno in gran parte la stessa cultura e la stessa lingua della Repubblica popolare cinese (Rpc).

Mentre l’Ucraina condivide un lunghissimo confine con la Russia (e con la Bielorussia), Taiwan è separata dalla Cina dai 180 chilometri di mare dell’omonimo stretto. Il presidente Xi Jinping ha inserito la «riunificazione» di Taiwan nel suo progetto di «grande rinascita della nazione cinese». Per il Partito comunista si tratta di portare a termine l’unità nazionale. Xi Jinping è nazionalista mentre Vladimir Putin è imperialista, ma entrambi si sentono investiti della stessa missione storica: ricongiungere alla madrepatria terre irredente.

Le tre crisi dello Stretto

Come l’Ucraina, Taiwan ha già subìto tre crisi, a cui ha sempre posto fine la minaccia d’intervento da parte degli Stati Uniti. La prima e la seconda crisi dello Stretto (1954-1955 e 1958) sono esplose nel contesto della Guerra fredda e del maccartismo: Taiwan era stata inserita nel dispositivo strategico americano con la firma, il 2 dicembre 1954, del Trattato di reciproca difesa con Chiang.

In entrambi i casi la Cina maoista ha bombardato le isole di Quemoy, Mazu e Dachen (a largo di Taiwan). Nel 1995-1996 i “test missilistici” cinesi, che avevano l’intento d’influenzare le elezioni a Taiwan, sono stati interrotti da Bill Clinton, che ha inviato nello Stretto le portaerei Independence e Nimitz.

Da allora è passato un quarto di secolo e gli eserciti di Pechino e Taipei – soprattutto il primo – sono in una fase di modernizzazione accelerata. Ma per quanto riguarda gli uomini (1 milione contro 88mila), i caccia (1.600 contro 400), i bombardieri (450 a zero), i tank (6.300 contro 800), i sottomarini (71 contro due), i cacciatorpedinieri (32 contro quattro) e le portaerei (due a zero), la superiorità dell’Esercito popolare di liberazione rispetto alle forze armate taiwanesi è di gran lunga maggiore di quella che l’armata russa vanta sull’esercito ucraino.

Gli Stati Uniti sostengono militarmente Taiwan come l’Ucraina: dal 2010 hanno venduto a Taipei armamenti per oltre 23 miliardi di dollari, 850 milioni di dollari sotto l’amministrazione Biden. E, come confermato il 28 ottobre scorso dalla presidente Tsai Ing-wen, a Taiwan (come in Ucraina prima che venissero evacuati nell’imminenza dell’attacco russo) sono presenti da tempo consiglieri militari e istruttori statunitensi che preparano l’esercito locale alla resistenza.

Il discorso s’inverte se consideriamo la infowar, con il governo di Taipei molto abile nel comunicare l’immagine di una società aperta e sensibile ai diritti civili che rischia di essere schiacciata da Pechino, che sui social illustra le sue rivendicazioni con la perentorietà della più bieca propaganda, indigeribile in occidente.

Difendere la libertà

Sputnik

Lo status diverso tra l’Ucraina (uno stato indipendente da trent’anni) e Taiwan (che ha un governo indipendente de facto, ma che è riconosciuta come Repubblica di Cina solo da 14 stati) permette a Pechino di sostenere che Taiwan non c’entri nulla con l’Ucraina.

Eppure, anche se formalmente per il diritto internazionale sussiste una notevole differenza, le cose sono molto più sfumate da un punto di vista sostanziale. Infatti sia gli ucraini sia i taiwanesi sono gelosi della loro libertà, che vogliono difendere da un vicino che percepiscono come minaccioso.

A Taiwan, dove negli ultimi anni i giovani (che votano in massa per Tsai) si sono costruiti un’identità taiwanese “contrapposta” a quella della Cina continentale, i sondaggi dicono che oltre il 70 per cento della popolazione è pronta a resistere a un eventuale tentativo di “riunificazione”.

E il detonatore di un conflitto, proprio come in Ucraina, può essere la spinta dei leader politici verso la piena sovranità, che a Kiev voleva dire integrazione nelle strutture multilaterali civili e militari occidentali, mentre a Taiwan sarebbe rappresentata da una dichiarazione d’indipendenza o da ulteriori passi sostanziali in questa direzione.

Eletta nel 2016 e riconfermata quattro anni dopo per un secondo mandato, a spingere decisamente in questa direzione è Tsai, leader del Partito democratico progressista (Dpp), che nel suo statuto afferma che «Taiwan gode di sovranità indipendente e non appartiene alla Repubblica popolare cinese».

Ambiguità per la stabilità

Contemporaneamente al riconoscimento della Rpc, nel 1979 gli Stati Uniti hanno varato il “Taiwan Relations Act”, che dichiara, tra l’altro, «l’aspettativa che il futuro di Taiwan sarà determinato attraverso mezzi pacifici», la «fornitura a Taiwan di armi a scopo difensivo», ma non prevede alcun obbligo di difesa dell’isola da parte degli Stati Uniti in caso di attacco da parte della Cina (il principio della cosiddetta “ambiguità strategica”).

Gli Usa si sono finora attenuti anche al principio – sul quale si sono accordati nel 1992 i rappresentanti di Pechino e Taipei –, altrettanto equivoco, del riconoscimento di «una sola Cina», alla quale però le parti danno un’interpretazione contrapposta.

Negli ultimi decenni queste ambiguità hanno permesso a Taiwan di prosperare grazie alle relazioni con la Rpc (il suo primo partner commerciale) e alla manifattura cinese di svilupparsi grazie agli investimenti del capitale taiwanese.

Ora però il Dpp sta cercando di “internazionalizzare” la questione di Taiwan. Si sono moltiplicate le visite di politici di alto profilo fra Taipei e Washington. A Pechino temono che gli Usa vogliano utilizzare Taiwan – che è stata inserita al centro della nuova strategia indo-pacifica varata dall’amministrazione Biden – per contenere l’ascesa della Cina, tornando alla politica della Guerra fredda. Questa preoccupazione contribuisce in maniera rilevante ad avvelenare i rapporti tra Pechino e Taipei ed è stata affrontata, senza alcun esito positivo, nell’ultimo colloquio tra Xi e Biden sull’Ucraina.

È possibile ripristinare lo status quo nei rapporti tra Cina e Taiwan che aveva ben funzionato prima dell’arrivo al governo del Dpp? In alternativa, qual è il modo più efficace di instaurare sul tema un dialogo con la Rpc, che considera la questione di Taiwan un affare interno?

Sono questi gli interrogativi che la comunità internazionale dovrebbe, urgentemente, affrontare. Il tempo stringe, le elezioni del gennaio 2024 potrebbero riconfermare a Taipei un governo indipendentista, spingendo Xi e compagni a passare all’azione.

Limitarsi a sostenere il Davide democratico contro il Golia autoritario rappresenta un’opzione moralmente giusta ma che, dal punto di vista politico, non fa altro che accelerare l’apertura di un nuovo fronte di quella che Biden chiama la «battaglia tra democrazia e autocrazie» che, dopo Kiev, potrebbe trovare in Taipei il prossimo campo di battaglia.

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