Dopo il lungo regno della Speaker Nancy Pelosi, i democratici americani hanno eletto una nuova leadership alla Camera dei Rappresentanti. A sostituire l’ottantanduenne deputata di San Francisco sarà Hakeem Jeffries, cinquantaduenne rappresentante dell’ottavo distretto dello stato di New York e già presidente del caucus dei dem dal 2018.

Un salto generazionale di trent’anni per un partito che fino a oggi aveva avuto una guida ottuagenaria: anche il vice di Pelosi, Steny Hoyer, è classe 1939, e ha deciso anche lui di non ricandidarsi alla leadership.

I democratici con la presidenza di Joe Biden hanno dato un’immagine di sé sicuramente rassicurante dopo il quadriennio trumpiano, ma di sicuro non esaltante né fresca agli occhi del proprio elettorato, specie quello più progressista. L’elezione di Jeffries, avvenuta all’unanimità e senza registrare malumori, dovrebbe andare in direzione di una maggior freschezza comunicativa, anche nei confronti delle minoranze che ormai mal si riconoscevano nella figura di Pelosi, vista come una bianca ricca che vive a San Francisco, una delle città più elitarie d’America. Jeffries al contrario sembra incarnare un partito nuovo, progressista ma non prono al socialismo e all’estrema sinistra, anche per quanto riguarda le sue origini.

La biografia

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Jeffries nasce a Brooklyn, quartiere di New York che negli anni Settanta era ancora molto popolare. Sua madre Laneda Jeffries è un’assistente sociale mentre il papà Marland è un consulente per le tossicodipendenze. I genitori si occupano quindi di due della maggiori problematiche della New York di allora che ancora sono tra le questioni che interessano più ai dem: la povertà e le dipendenze.

La sua formazione è quella di un classico aspirante politico: laurea in scienze politiche in un ateneo pubblico della sua città, la Binghamton University, e specializzazione in legge alla prestigiosa università di Georgetown, a Washington. Prima di entrare in politica lavora come collaboratore del giudice federale Harold Baer dal 1997 al 1998 per poi entrare in uno studio legale. Nel 2004 diventa avvocato del colosso dei media Viacom: nonostante il lavoro per una multinazionale, viene eletto presidente dell’associazione Black Lawyers for Progress. Con queste credenziali corona quello che era il suo obiettivo: riesce a farsi eleggere come deputato statale di New York nel 2006. Nell’assemblea di Albany, capitale dello stato di New York, Jeffries diventa famoso come un difensore degli afroamericani dalle angherie della polizia della Grande Mela: durante il suo mandato, presenta 70 disegni di legge su questo e altri temi. Uno di questi ha impedito alla polizia di archiviare l’identità di chi fermava anche quando la perquisizione non si concludeva con un arresto. 

In politica

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Grazie a questo lungo lavoro (e al fatto che Jeffries è sempre vissuto nel quartiere, fatta eccezione per i due anni a Georgetown) il deputato statale Jeffries ha cominciato a puntare più in alto, alla Camera dei rappresentanti federale. L’occasione si presenta nel 2012, quando il veterano Edolphus Towns dell’ottavo distretto di New York decide di non ricandidarsi dopo trent’anni di mandato.

Quel seggio, a larga maggioranza afroamericana, può contare su una maggioranza blindata di democratici. L’unica elezione competitiva, quindi, è rappresentata dalle primarie dei democratici. A sfidare Jeffries fu un consigliere cittadino di New York, Charles Barron.

In questa circostanza Jeffries si era giocato la carta della moderazione e del buonsenso contro Barron, un estremista di sinistra noto per aver elogiato pubblicamente il dittatore libico Muhammar Gheddafi e il padre-padrone dello Zimbabwe Robert Mugabe. In questo modo Jeffries raccoglie il sostegni di vari membri dell’establishment dem newyorchese, tra cui lo storico sindaco degli anni Ottanta Ed Koch.

Il suo modo di esprimersi gli guadagna la definizione di “Obama di Brooklyn”: Jeffries non ha mai apprezzato troppo questo termine, dato che non rende a dovere la sua caratteristica di “candidato di quartiere”, più progressista di Obama ma al tempo stesso non disposto a piegarsi a quelli come Barron, accusato di essere antisemita per la sua posizione filopalestinese.

Una posizione a metà

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Jeffries trionfa con il 72 per cento contro il 28 per cento del suo avversario. Al Congresso rimane spesso a metà tra la moderazione della leadership e il progressismo della sua posizione molto critica degli abusi della polizia. Durante la presidenza di Donald Trump, che lui aveva definito un presidente “illegittimo” aiutato dall’interferenza russa, entra nella leadership del Congresso nel 2018, battendo la deputata californiana Barbara Lee per la carica di presidente del caucus democratico, in precedenza occupato da un altro newyorchese, Joe Crowley, sconfitto dalla progressista Alexandria Ocasio Cortez alle primarie di quell’anno. Fino alla sorprendente scalata quattro anni dopo: Jeffries sembra un punto d’equilibrio tra le varie tendenze dem, non sgradito né ai moderati né ai progressisti (questi ultimi in realtà lo considerano un “dem da corporation”) e quindi potenzialmente in grado di raccogliere lo scettro di Pelosi in un partito che, per la prima volta nella sua storia, non conterà uomini bianchi nella leadership.

Essendosi finora occupato di tenere ordine nelle fila dei rappresentanti, non si sa ancora quali possano essere le sue capacità negoziali con la controparte repubblicana, che invece lo vede come un “pericoloso radicale”. Pesa su di lui la situazione non salubre dei dem newyorchesi che lui rappresenta: cinque esponenti in carica sono stati battuti dai loro avversari, grazie a una campagna condotta male dalla governatrice Kathy Hochul, regalando la maggioranza al Gop. Non un buon viatico con il quale iniziare il proprio percorso di leader per Hakeem Jeffries.

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