La 39enne è arrivata nel nostro paese con i suoi cinque figli. Dopo un mese di ricovero al Niguarda, per la sua famiglia si sono spalancate le porte di un Cas (centro di accoglienza straordinaria) milanese: «Non sto vivendo una vita dignitosa: nessun sostegno psicologico, nessuna lezione di italiano. I nostri giorni sono vuoti: perché mi avete portato qui se non mi volete?»
I ricordi di Gaza e il presente in Italia sono carichi di dolore e sofferenza per Huda Mustafa Ahmed Abu Farih. Ha 39 anni e da tre mesi vive a Milano dopo che è stata trasferita insieme ai suoi cinque figli, il più piccolo dei quali aveva bisogno di cure urgenti. A suo marito, invece, è stato negato il trasferimento ed è rimasto a Gaza: «È affamato, non sta bene. Nelle tende c'è povertà, fame, assedio e non c'è niente da mangiare. Non possiamo riunire la famiglia», racconta Huda a Domani.
«Mio figlio era sano, era nato sorridendo alla vita. Aveva la speranza negli occhi, come ogni altro bambino vuole vivere», aggiunge. A stroncare il suo sorriso ci ha pensato un anno fa un drone israeliano. Appena arrivata in Italia, Huda e suo figlio Mustafa sono stati in cura all’ospedale Niguarda di Milano per circa un mese.
Poi è arrivato il trasferimento in un Cas, per lei e i suoi cinque figli le istituzioni italiane non sono riuscite a trovare una sistemazione migliore. Da tre mesi si sente abbandonata: senza supporto psicologico, accesso all’istruzione e con una vita in comune con altre persone. «Perché mi avete portato qui se non mi volete? Non vedete che viviamo tra il tormento e la sofferenza?», dice in lacrime.
Che ricordi ha del giorno dell’attacco?
Mustafa era nato da nove giorni, lo stavo allattando in una tenda dove ci eravamo rifugiati a nord di Nuseirat. Nelle vicinanze era in corso un’operazione militare. Sentivamo gli spari degli aerei dei carri armati. Ad un certo punto un attacco violento con un drone. Avevo Mustafa in braccio, era diventato blu. Vedevo pezzi di carne viva fuori dalla testa, ho pensato subito che fosse morto. Se un figlio non è al sicuro tra le braccia della propria madre, dove può esserlo?
E poi?
La protezione civile ci ha portati all’ospedale al Awda. Poi da lì siamo stati trasferiti all’ospedale Al Aqsa. I dottori mi avevano detto che non potevo fare altro che pregare, la situazione era molto critica. Mio figlio ha subito fratture al cranio, un’emorragia cerebrale, aveva lacerazioni varie. Ero paralizzata, non riuscivo a pulirmi il sangue di dosso. L’ho fatto solo quando mi hanno detto che lo avevano salvato. I medici hanno chiesto il trasferimento all’estero perché doveva stare sotto osservazione, ogni complicazione avrebbe potuto causargli problemi motori o alla vista.
Da lì all’Italia.
Dopo mesi mi hanno contattata dicendomi che c’era l’opportunità di ricevere cure qui in Italia. Siamo arrivati all’ospedale Niguarda di Milano dopo l’evacuazione dal valico di Karem Shalom. Dopo un mese di sofferenza tra analisi ed esami hanno scoperto che Mustafa ha delle complicazioni.
Suo marito è rimasto lì però.
Sì, ogni tanto siamo in contatto, ma dipende dalla connessione internet. È affamato, non sta bene. L’ultima volta che l’ho sentito ha mangiato una fetta di pane e lenticchie secche. Sono molto preoccupata per lui.
Torniamo in Italia, che tipo di accoglienza ha ricevuto?
Non pensavo che le cose sarebbero andate così. Non sto vivendo una vita dignitosa in Italia, sono tre mesi che non riescono a trovarmi un alloggio. Mi dicono che sono una famiglia numerosa e un peso per il governo italiano. Gaza è stata distrutta, le sue case rase al suolo. Vivevo dignitosamente, avevo una casa e una vita indipendente, lavoravo come impiegata. Sono tornata al punto di partenza. Ora ho paura che un giorno perderò il mio diritto alla vita.
Cosa manca qui?
Il cibo non è buono, i miei figli non hanno voglia di mangiare. Non hanno accesso all’istruzione, devono integrarsi ma non ci danno una mano. Nessuno gli insegna la lingua italiana. Hanno bisogno di sostegno psicologico, sono traumatizzati. Qui i nostri giorni sono vuoti. Viviamo in un ambiente che non è adatto per cinque persone. Il bagno è in comune ed è un problema anche per me che sono malata. Ho il diabete, ero incinta e ho dovuto abortire in seguito a delle complicazioni. Mi hanno fatto delle trasfusioni di sangue, oggi ho bisogno di vivere in un ambiente sano diverso da questo. Perché mio figlio non può ricevere le giuste cure? Devo regolarizzargli gli orari del sonno in una stanza tutta sua e spegnere la luce. Qui è impossibile. Chi garantirà il futuro del mio bambino malato? Eravamo poveri a Gaza e lo siamo anche qui, ma quella è la nostra terra.
Se lo aspettava un trattamento simile?
Ci hanno abbandonato i paesi europei e quelli arabi. Sapete bene il dolore che abbiamo sofferto a Gaza. Abbiamo visto con i nostri occhi lo sterminio di case e dei nostri cari. L’esercito israeliano ha ucciso 17 membri della famiglia di mio marito. Alcuni di loro sono morti dopo che un bombardamento ha colpito una scuola che veniva usata come rifugio. Qui siamo ripartiti da zero e mi dicono che dovrò rimanerci per due anni. Abbiamo bisogno di tutto. Se fossimo rimasti a Gaza e fossimo morti forse sarebbe stato meglio per noi.
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