Pochi politici hanno incarnato così bene un concetto di politica come Henry Kissinger. Oggi, giorno del suo centesimo compleanno, l’ex segretario di Stato continua ancora ad essere una voce autorevole per quello che riguarda le relazioni internazionali.

Del resto, parliamo di una figura chiave della politica estera di Washington in un periodo cruciale per gli sviluppi della Guerra fredda: Consigliere per la Sicurezza Nazionale a partire dal 1969 per gran parte dell’amministrazione di Richard Nixon e dal 1973 il segretario di Stato. Prima di Nixon poi di Gerald Ford, dopo che lo scandalo del Watergate costrinse il suo predecessore alle dimissioni.

In questo lungo periodo Kissinger sovrintende ai processi decisionali americani. Di solito gli si attribuiscono diversi successi, tra cui la fine della guerra del Vietnam, con il definitivo ritiro delle truppe americane e la firma del trattato Salt 1 avvenuta il 26 maggio 1972 tra Stati Uniti e Unione Sovietica per la riduzione delle armi strategiche e dei missili balistici.

Infine, l’apertura delle relazioni diplomatiche con la Cina di Mao, suggellata dalla visita del presidente Nixon a Pechino. Insomma, una stagione di successi.

Questo però soltanto in apparenza. Dietro a queste aperture, c’è una teoria realista delle relazioni internazionali da lui elaborata nei lunghi anni di studio all’università di Harvard.

Già nella sua tesi di dottorato, incentrata sui rapporti tra il cancelliere dell’Impero austriaco Klemens Von Metternich e il segretario di stato britannico Lord Castlereagh c’era già in nuce il suo modello di raggiungimento dell’equilibrio tra le potenze, quale che fosse il loro regime politico.

Anche con l’Unione sovietica il suo obiettivo era raggiungere una sorta di coesistenza pacifica che eliminasse le ragioni di frizione tra le due superpotenze. Con questa teoria finiva la pretesa kennediana di un’America che guidasse le altre nazioni anche attraverso l’esempio e la difesa dei diritti umani.

Durante il suo periodo, infatti, la dissidenza nei paesi comunisti viene quasi ignorata, perché sostenerla poteva mettere a rischio la qualità dei rapporti con Mosca. Relazione che Kissinger curava attraverso il suo rapporto personale con l’ambasciatore a Washington, Anatolij Dobrynin, un dialogo che però si muoveva con canali non ufficiali ma segreti, alle spalle del Congresso, una modalità che anche Nixon approvava.

Anche con la Cina, del resto, si stava tentando di ricucire da anni, con colloqui riservati che si tenevano ben lontano dal suolo americano, a Varsavia, tramite le rispettive rappresentanze diplomatiche nel paese. Come criticarlo, in quel caso.

Il prezzo pagato, di fatto, è stato l’abbandono dell’alleanza stretta che fino a quel momento Washington intratteneva con Taiwan, guidata ancora dal generale Chiang Kai Shek, con il quale vengono rotte le relazioni diplomatiche, rompendo una promessa che Kissinger fece al politico di Taipei Chiang Ching-Kuo nell’aprile 1970.

Cina

Non solo, secondo lo studioso di scienze politiche del Council of Foreign Relations Ray Takeyh, Kissinger non ottenne da Mao Zedong alcuna garanzia su un allentamento del rigido totalitarismo nel quale aveva imprigionato la Cina comunista. E Pechino continuò anche a sostenere un nemico di Washington come il regime nord-vietnamita, con il quale l’esercito americano era in guerra.

Takeyh in un saggio pubblicato sul magazine conservatore Weekly Standard nel giugno 2016 sostiene anche che non ci siano prove di sorta che Kissinger abbia svolto un ruolo nell’apertura successiva della Cina nei confronti dell’economia di mercato.

Sempre nell’area indocinese, Kissinger consigliò il presidente Nixon di allargare i bombardamenti alla vicina Cambogia neutrale, coinvolgendola nel conflitto vietnamita e favorendo sia pur indirettamente l’ascesa del regime dei Khmer Rossi.

Regime che Kissinger, a partire dal novembre 1975, quando era segretario di Stato dell’amministrazione Ford, sostenne indirettamente per limitare l’influenza del Vietnam comunista unificato, pur ammettendo che il regime di Pol Pot era composto da “tagliagole assassini”. Indirettamente confessò al ministro degli esteri thailandese che l’America «non avrebbe ostacolato i Khmer Rossi».

L’ombra nefasta

C’è un’altra pagina poi che ha fatto sì che il nome di Kissinger si macchiasse di un’ombra nefasta agli occhi del mondo progressista: il ruolo svolto in Cile nell’aiutare il generale Augusto Pinochet nel rovesciare il governo eletto di Salvador Allende, che cominciava a guardare a un graduale distacco dall’influenza di Washington.

Analogamente, Kissinger sostenne anche la giunta militare argentina che prese il potere nel 1976 cacciando la presidente populista Isabelita Peron.

Se da un lato queste due azioni furono un successo, guardandole dal punto di vista del mero interesse americano, contribuirono come poche altre a fornire un’immagine sinistra dell’azione di Washington nel mondo, vista come simile a quanto aveva fatto l’Unione sovietica nel 1968, quando decise di rovesciare il governo del comunista moderato Aleksandar Dubcek.

Per queste e per altre decisioni simile in America Latina (radunabili con il nome di Operazione Condor) a sostegno di giunte militari di destra, da più parti si cominciò a invocare un processo nei confronti di Kissinger, ritenuto l’anima nera della politica estera americana.

Per citare soltanto uno di questi saggi, si invocava quello che il giornalista britannico Christopher Hitchens definì Il Processo a Henry Kissinger. Se da un lato è difficile dare torto a uno storico conservatore come Niall Ferguson, piuttosto simpatetico nei confronti dell’ex segretario di Stato, la fortuna di Kissinger fuori dai circoli accademici e dai think tank washingtoniani è stata tutto sommato modesta.

Il primo presidente repubblicano dopo Gerald Ford, Ronald Reagan, ripescò una retorica di duro confronto nei confronti dell’Unione sovietica, continuando sulla scia del suo predecessore Jimmy Carter un massiccio investimento per il rinnovo della macchina bellica statunitense per combattere quello che Reagan definì “l’Impero del male” nei confronti del quale gli Stati Uniti non avrebbero dovuto coesistere, ma gradualmente avrebbero dovuto condurre il marxismo-leninismo nelle sue varie incarnazioni a finire «nel posacenere della Storia», come disse durante un discorso tenuto nel 1982 nel Parlamento britannico.

Anche i due Bush ignorarono l’approccio kissingeriano, con alterne fortune, dato che l’intervento in Iraq nel 1991 fu un successo pressoché totale, mentre l’intervento del 2003, fatto senza passare dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu, portò a uno sforzo bellico massiccio senza un risultato duraturo nell’area.

Paradossalmente appare più kissingeriano l’approccio di Donald Trump, anche se dato il carattere erratico dell’ex presidente è difficile accomunare le azioni del suo quadriennio a una teoria ben definita.

Henry Kissinger, quindi, lascia un’eredità controversa nelle relazioni internazionali anche sul lungo periodo, dato che è difficile non ravvisare una lontananza totale anche delle azioni del presidente in carica Joe Biden, tutt’altro che realista nel suo duro scontro nei confronti di Mosca e di Vladimir Putin.

Si può affermare con ragionevole sicurezza, dunque, che la Realpolitik ha dato successi effimeri al ruolo americano nel mondo, ma ha creato altrettanti problemi di ben più complessa soluzione.

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