Quando ci sono le elezioni di metà mandato, negli Stati Uniti, si rinnova l’intera Camera dei rappresentanti e un terzo del Senato. Questa è la normale competizione elettorale.

C’è poi un’altra competizione che si gioca nelle assemblee statali e nelle residenze dei governatori: il disegno delle mappe congressuali.

Ogni dieci anni, in occasione del censimento che avviene negli anni con lo zero, i distretti si devono aggiornare. In quel caso i partiti mettono mano al cosiddetto “gerrymandering”. Di cosa si tratta? Il termine è intraducibile.

Senza farla troppo lunga, prende il nome dal governatore del Massachusetts Elbridge Gerry che aveva ridisegnato i seggi congressuali dopo il censimento del 1810: uno di questi distretti somigliava a una salamandra e così il “seggio-salamandra” fu il soggetto di una vignetta sulla Boston Gazette il 26 marzo 1812.

Perché però disegnare un seggio dalla forma strana, senza alcun senso né geografico né demografico. Semplice: per concentrare quanto più possibile gli elettori del partito avversario in meno seggi possibile.

Quindi per decidere, nei limiti del possibile, la partita ancora prima d’iniziare a votare. È una battaglia nella quale il semplice elettore non viene coinvolto.

La Corte suprema

Torniamo alla contemporaneità. Al primo stato in ordine alfabetico: l’Alabama. Notoriamente è sinonimo di conservatorismo, essendo passato nel giro di qualche decennio dai democratici segregazionisti ai repubblicani.

Attualmente i suoi seggi alla Camera sono sette. Sei sono occupati da repubblicani e uno dai democratici. Il 27 per cento della popolazione è afroamericana e vota in prevalenza  per il Partito democratico.

Quindi, a rigore, i seggi andrebbero ridisegnati in modo che almeno uno in più sia contendibile per i dem. Così almeno la pensava una corte distrettuale federale, ritenendo fondato il ricorso depositato dalla Naacp, la principale associazione americana per i diritti degli afroamericani.

Di fatto si imponeva alla legislatura statale di fornire un’altra mappa. A sorpresa è intervenuta la Corte suprema per dire che invece no, l’argomento non è chiuso, come pensava la Corte distrettuale, sulla base della legge per il diritto di voto del 1965, che proibisce che i collegi uninominali vengano disegnati in modo discriminatorio. Di fatto, minando la legge in vigore.

E pensare che anche senza bisogno di questa sentenza, i governatori repubblicani o le legislature a maggioranza conservatrice avevano ampiamente usato la fantasia per disegnare i distretti in seguito al censimento del 2010, con vertici di creatività raggiunti in Michigan e in Pennsylvania.

In quest’ultimo caso, nel 2018 la Corte suprema dello stato aveva ottenuto il ridisegno della mappa. Tra gli analisti il tema prevalente è che i repubblicani ormai siano i maestri indiscussi del controllo dei distretti. Lo avrebbero provato i casi dei tre stati in bilico tra Trump e Biden nel 2020, Michigan, Wisconsin e Pennsylvania: tre stati con un governatore dem e una maggioranza legislativa repubblicana ottenuta negli anni precedenti che bloccava i programmi progressisti nel migliore dei casi.

Nel peggiore, come in Wisconsin, cercava di avocare a sé dei poteri che precedentemente appartenevano al governatore.

A ben vedere però, a partire dagli anni successivi al 2010, dove i repubblicani hanno agevolmente controllato la Camera dei rappresentanti al Congresso fino al 2018, la situazione è molto cambiata. Il gerrymandering non è più il patrimonio di un solo partito.

I “disegnatori” democratici

Lo testimonia anche una lunga analisi del sito di sondaggi di Cook Report che sta monitorando il lavoro fatto nei vari stati riguardo alla costituzione dei nuovi distretti.

Com’è ovvio, i repubblicani cercano di massimizzare la probabile maggioranza nelle elezioni di medio termine. Così come pare ovvio che i due nuovi seggi che il Texas avrà grazie all’aumento di popolazione saranno nuovi rinforzi per il Gop.

In Florida, invece, l’esplosivo e ultraconservatore governatore Ron DeSantis si sta scontrando con la sua maggioranza e con la Corte suprema statale (dove i sette giudici sono stati nominate in parte da lui e dai suoi predecessori anch’essi repubblicani) perché vuole cancellare il quinto distretto mantenuto da Al Lawson, politico di carriera afroamericano, tanto da porre il veto su una proposta di mappa che mantiene uno status quo già favorevole ai repubblicani.

Uno scontro da cui probabilmente il governatore spera di trarre vantaggio in ottica presidenziale. E passiamo quindi all’azione dei democratici.

Il partito del presidente Joe Biden controlla tre stati importanti come California, Illinois e New York, avendo maggioranze qualificate. A sorpresa, in questi stati i democratici hanno deciso di disegnare la nuove mappe seguendo l’esempio dei repubblicani.

Nello stato di New York la legislatura statale sta eliminando tre o forse quattro seggi controllati dal partito di Donald Trump: l’ex presidente non ha mancato di diramare un comunicato di fuoco lo scorso 5 febbraio mettendo in guardia i repubblicani che «si stanno facendo fregare con questa redistribuzione fasulla di seggi che sta avvenendo in tutto il paese».

Un editoriale sul Wall Street Journal ha stigmatizzato la mossa, vedendola come funzionale al mantenimento della fragile maggioranza alla Congresso, dove però queste mosse serviranno a poco se Joe Biden rimarrà impopolare come nel mese di febbraio, dove ha raggiunto il record negativo del suo predecessore, con soltanto il 41,4 per cento di approvazione, secondo le stime del sito FiveThirtyEight.

Ancora più grave la situazione in Illinois, dove il governatore Pritzker ha blindato 14 seggi su 17, mentre per quanto riguarda la California ci saranno 44 seggi su 52 favorevoli ai dem, nonostante la nuova mappa sia il prodotto di una commissione indipendente.

Mappe in bilico

Ci sono anche casi limite di stallo, come in Ohio, dove non c’è ancora una nuova mappa perché il governatore Mike DeWine, moderato che corre per la rielezione, non vuole far arrabbiare Trump demolendo il distretto che elegge uno dei suoi più accaniti seguaci, il deputato estremista Jim Jordan.

Le critiche repubblicane però, anche quelle più costruttive e mirate come quelle del board del Wall Street Journal, suonano pretestuose.

Non soltanto perché il divieto di ridisegnare i distretti è stato proposto dai democratici in un disegno di legge complessivo per salvaguardare l’equa rappresentanza degli elettori.

Ancora una volta a cambiare le regole è stata la Corte suprema. Lo abbiamo già visto nel caso dell’Alabama: meglio lasciare un certo margine di discrezionalità agli stati e non interferire con le loro prerogative, come ripetutamente affermato dal giudice capo John Roberts.

Già il 27 giugno 2019 la sentenza Rucho v. Common Cause diceva esplicitamente che la Corte non può risolvere da sola questo problema, con una decisione che divideva i cinque giudici di orientamento conservatore, capeggiati proprio da Roberts, contro i 4 progressisti, che si riconoscevano nel dissenso scritto dalla giudice Elena Kagan, che affermava che si preferiva lasciare mano libera ai partiti di blindare il proprio potere attraverso l’ingegneria elettorale.

Sarebbe troppo lungo ripercorrere i precedenti che fanno capire come la pratica di disegnare dei collegi favorevoli al proprio partito sia una costante della storia americana.

Possiamo però stabilire come la situazione sia di aperto conflitto: anche i dem ormai non pretendono più di essere i tutori dell’ordine costituzionale, ma preferiscono arraffare più seggi negli stati che controllano, togliendo il terreno agli avversari usando i loro stessi metodi.

Pur non avendo la palla di vetro, ci viene in aiuto il recentissimo precedente delle elezioni di metà mandato del 2018: all’epoca Donald Trump perse la maggioranza alla Camera dei rappresentanti, nonostante il “gerrymandering” dei governatori repubblicani, a causa di una popolarità in caduta libera.

Quindi anche il destino di Joe Biden appare segnato in modo simile. Rimarcando che la pretesa discontinuità con Trump non è profonda come si sarebbe potuto pensare un anno fa.

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