La sentenza della Corte suprema del Regno Unito nel giudizio For Women Scotland Ltd v The Scottish Ministers del 16 aprile, nato da un contenzioso legato all’attuazione del Gender Representation on Public Boards (Scotland) Act 2018 del quale si contesta l’inclusione anche delle donne trans con certificato di riconoscimento di genere tra le “donne” ai fini della rappresentanza paritaria nei board pubblici, stabilisce che i termini “donna”, “uomo” e “sesso” nell’Equality Act 2010 (EA 2010) si riferiscono esclusivamente al sesso biologico, in base al quale possono essere organizzati i servizi e gli spazi riservati alle donne.

La decisione interviene in un dibattito pubblico fortemente polarizzato tra coloro che contrappongono i diritti delle donne sulla base del sesso biologico ai diritti delle donne transgender, tanto da silenziare la complessità delle riflessioni possibili: affermare che il sesso biologico sia un fatto che non può essere ignorato non significa, a mio avviso, negare i percorsi di soggettivazione individuali e le esperienze di violenza, discriminazione o esclusione. Non esiste un punto neutro da cui guardare alla differenza: si parte da dove siamo – incarnate – ma da lì si prende parola, come di recente ha ribadito la filosofa Chiara Zamboni.

Tenere insieme le differenze

Fuori dalle polarizzazioni dobbiamo poter immaginare delle pratiche politiche che tengano insieme le differenze, che riconoscano la materialità dei corpi e la molteplicità delle esperienze. Negare queste ultime per legge o attraverso il contenzioso significa negare la realtà del mondo della vita, allo stesso modo della cancellazione del sesso biologico.

Riconoscere e rivendicare il valore politico e di sistema degli spazi politici delle donne, come per esempio i centri antiviolenza femministi, non significa produrre gerarchie tra le oppressioni, ma vuol dire indagare collettivamente “cosa vivi?”, “da cosa hai bisogno di protezione?”, “quali ostacoli impediscono la tua libertà?”. E queste domande, oggi, possono trovare risposta nella capacità di leggere la complessità delle vicende umane grazie alla radicale capacità femminista di “fare mondo” laddove prima c’è silenziamento e cancellazione.

Nuove relazioni

Questo è per noi il separatismo femminista, nato come pratica di autodeterminazione per sospendere l’egemonia maschile e costruire spazi di parola, sapere, cura e resistenza. Separarsi dalle dinamiche egemoniche maschili non può significare escludere l’alterità, ma creare condizioni per nuove relazioni, per una rinegoziazione del potere che non si limiti a rovesciare i ruoli tra chi domina e chi subisce, ma che sappia aprire a relazioni in cui il potere si trasformi in capacità di agire collettivamente, di nominare il mondo a partire da sé, di creare legami non gerarchici, fondati sulla libertà, sull’ascolto e sul riconoscimento reciproco.

Queste pratiche sono ancora di grande impatto sociale, come possiamo sperimentare quotidianamente nell’esperienza dell’associazione Differenza Donna, che da oltre trent’anni gestisce centri antiviolenza e case rifugio fondati sul separatismo quale approccio efficace contro la violenza sessista: pur in una situazione di urgenza ed eccezionalità, la protezione si traduce nell’opportunità di aver accesso a uno spazio inteso come luogo e come tempo nel quale è possibile una dimensione di parola, abitativa e temporale tutta per sé ma sempre condivisa, poiché è la relazione con le altre che cambia la percezione del valore di sé nel mondo.

Centri antiviolenza

Oggi, quando il dibattito politico e il diritto usano il separatismo femminista per escludere le donne transgender, occorre ricordare che quelle pratiche radicali nascono per dare voce a chi è silenziata, invisibile, ignorata, agendo da dispositivi di potere rovesciato, di rottura, di reinvenzione: l’accesso al centro antiviolenza, nella nostra pratica politica femminista, si fonda sull’esperienza concreta della violenza sessista subita in quanto donna o in quanto socialmente tale, perché la nostra azione politica parte dai corpi attraversati dal senso, dalla storia, dalla relazione e dalla violenza sistemica.

In questa prospettiva, i centri antiviolenza sono spazi trasformativi in cui si riconosce e si valorizza l’esperienza incarnata della violenza e il desiderio di uscita da essa. Luoghi che offrono accoglienza a chi ha subito violenza in quanto donna, anche se il proprio percorso soggettivo di genere è stato un attraversamento, perché il fulcro della relazione politica in uno spazio femminista sono l’alleanza e la fiducia reciproca.

Combattere l’invisibilizzazione

Oggi, fare spazio significa non accettare la logica delle contrapposizioni che mirano a invisibilizzare. La forza trasformatrice degli spazi dedicati alle donne non è minacciata da coloro che socialmente si riconoscono tali, semmai da chi smantella i servizi pubblici, chi toglie fondi alle politiche sociali, ai centri antiviolenza femministi per redistribuirli a enti gestori “misti” che si occupano di tutto un po', invitati dalle istituzioni ai tavoli di confronto pur in assenza di competenza e visione politica sulla violenza di genere nei confronti delle donne, ma che comunque pretendono di spiegarla a tutte le altre sedute al tavolo ignorando i saperi di coloro che, per prime, hanno insegnato alla politica a nominare la violenza che le donne subiscono, come sta accadendo in sede di discussione dei requisiti necessari per la gestione dei centri antiviolenza in Italia.

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