Si tratta a Gedda ma a Khartoum si continua a sparare. Il Sudan entra nel secondo mese di conflitto e la situazione attorno al tavolo negoziale convocato con la mediazione di Usa e Arabia Saudita resta di sostanziale stallo. Ai minimi progressi registrati nei giorni scorsi per un accordo sull’accesso degli aiuti umanitari, fanno da contraltare le ripetute violazioni dei cessate il fuoco.

L’esodo verso ogni zona interna appena più tranquilla o verso tutti i paesi limitrofi compresi quelli a loro volta caratterizzati da conflitti o instabilità (Ciad, Sud Sudan, Eritrea tanto per citarne alcuni) continua senza sosta. A documentarlo al confine con l’Etiopia, in attesa di entrare in Sudan per scrivere del conflitto dall’interno, c’è Sara Creta, collaboratrice di Domani e di varie testate internazionali.

L’abbiamo raggiunta al telefono nella zona di Metema, area sud occidentale del paese, a metà strada tra Sud Sudan ed Eritrea, dove, secondo l’ufficio delle Nazioni unite per gli affari umanitari (Ocha) più di 20.400 individui hanno attraversato la frontiera.

«È una zona cuscinetto, dove c’è un enorme flusso in entrata verso l’Etiopia, in gran parte composto da donne e bambini, alcuni di appena pochi giorni di vita, che si ritrovano ammassati in questa terra di nessuno, in condizioni disastrose, dove non c’è assolutamente nulla oltre a qualche esercizio commerciale. Si corrono molti pericoli: il caldo, la mancanza di acqua, elettricità e servizi di base, qui non sono praticamente arrivati presidi umanitari. La maggior parte di chi sta scappando dal Sudan in questo momento (220mila secondo l’Unhcr, ndr) lascia il paese via terra. Il problema è che chi non ha un visto di uscita dall’Etiopia o un passaporto straniero, una volta entrato in Etiopia, non può continuare, sono arrivati qui profughi eritrei, liberiani, nigeriani, anche siriani che avevano in Sudan le loro attività e che ora tentano di scappare. Chi non ha documenti per continuare resta bloccato qui».

Tu perché sei lì?
«Io sto cercando da vari giorni di entrare in Sudan ma al momento sembra impossibile. C’è un divieto a giornalisti, operatori umanitari, stranieri in genere a entrare in Sudan, mascherato dal potere centrale sotto forma di tutela. “Ci scusiamo – recita un comunicato ufficiale – ma a causa della fragilità della situazione di sicurezza in questa fase è proibito fare ingresso nel paese”. È un ennesimo attacco alla possibilità di informare il mondo su quello che sta accadendo in Sudan che infatti sta perdendo l’interesse dell’agenda politica e rischia di essere sempre più isolato (secondo Al Jazeera i giornalisti sudanesi subiscono minacce di morte da parte di entrambe le parti in conflitto e del Partito del Congresso Nazionale, legato all'ex dittatore al-Bashir, ndr)».

«Al contrario, il Sudan ha un’importanza strategica enorme per la regione del corno d’Africa, gli Emirati Arabi, l’Arabia Saudita e per l’Europa stessa, non solo nel senso su cui la narrativa occidentale insiste, di pericolo di “esportazione” migranti, ma perché sul Sudan convergono gli interessi di Cina, Russia e Stati Uniti su scala internazionale. Serve quindi avere un’attenzione internazionale costante, in un momento, peraltro, in cui tutte le diplomazie e molti organismi internazionali se ne vanno».

Al momento ti trovi in Etiopia, come sta rispondendo il governo di Addis Abeba, i confini sono presidiati?
«C’è un invio massiccio di soldati e massima allerta. Sulla strada che da Gondar arriva alla frontiera ci sono decine di check point, come su tutto il confine. Nei giorni scorsi, ci sono stati scontri tra l’esercito federale e alcuni gruppi paramilitari etiopi, che negli ultimi anni sono diventati una specie di esercito locale al servizio del governo regionale. Le donne arrivano sole, spaventate, con bambini di pochi giorni e non trovano nessun supporto. Metema è una cittadina di frontiera abbandonata, ci sono case sparse e i locali hanno cominciato ad affittare camere a chi arriva. Ma non c’è acqua corrente, non ci sono servizi. Le persone cercheranno di continuare il viaggio ma sarà sempre più complicato, perché troveranno altre difficoltà sul loro cammino. La presenza delle Nazioni unite e di altre organizzazioni è minima. Anche in Etiopia devono fare i conti con difficoltà di accesso e restrizioni».

Nel frattempo, giungono notizie di fenomeni nel fenomeno che aggravano, se possibile, il quadro generale. Da settimane si registrano rimpatri forzati di profughi eritrei sfuggiti alla dittatura di Isaias Afewerky, ora costretti a scappare dalla nuova situazione di guerra, che vengono intercettati da agenti eritrei e riportati nel paese d’origine a forza. A loro si aggiungono quegli eritrei in fuga dal conflitto che invece finiscono in Etiopia e che temono di venire a loro volta rispediti ad Asmara, ora che il primo ministro etiope Abyi e il presidente eritreo Afewerki da acerrimi nemici, sono divenuti alleati, sodali nella terribile guerra che ha insanguinato il Tigray fino a novembre scorso. Il Guardian, inoltre, riporta della terribile sorte che starebbe toccando a migliaia di etiopi una volta ospiti dei campi profughi delle Nazioni unite ormai in rapido collasso, che vengono rapiti, portati in Libia e torturati per ottenere un riscatto.
«Alcuni ragazzi eritrei con cui ho parlato qui mi hanno confermato che specie nella zona orientale del Sudan, dove c’è una storica presenza di eritrei, alcuni autobus sono stati fermati da agenti eritrei e portati via. Altre persone mi hanno invece riferito che molti sono stati arrestati e che alcuni, intercettati, hanno tentato di riscappare in Sudan. Ci sono poi quegli eritrei appartenenti a movimenti politici fuggiti dall’Etiopia dopo l’accordo di pace tra Addis Abeba ed Asmara (firmato a luglio del 2018, metteva fine a decenni di aspra tensione, ndr) in Sudan, o giornalisti e attivisti eritrei, che sono in pericolo in Etiopia perché le relazioni tra Asmara e Addis sono ora migliori. Molti di loro erano fuggiti dall’Etiopia proprio perché temevano di venire arrestati o rimandati in Eritrea».

«La lotta in Sudan è tra due signori della guerra, il capo di stato di fatto e dell’esercito Al-Burhan e Hemedti, il comandante delle Rsf, gli eredi organizzati e uniformati delle milizie Janjaweed, che per anni hanno terrorizzato le popolazioni del Darfur. Certo, dietro di loro ci sono potenze e interessi esterni, ma la vera, unica posta in gioco è il controllo del paese e delle risorse naturali. E infatti si gioca nei luoghi più simbolici, i palazzi del potere».

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