Né a Kiev, né a Washington, né all’Europa vogliono darla vinta. E un compromesso, un accordo, un rimedio al conflitto non lo vogliono: i nazionalisti radicali russi condannano ad alta voce i colloqui di pace diretti in corso tra russi e ucraini, criticano le ultime scelte del Cremlino e vogliono che l’esercito di Mosca continui a combattere sul campo ad oltranza, fino alla vittoria. Sognano che sventoli tricolore russo pure a Odessa e Kiev, i più spericolati ed ingenui lo immaginano garrire anche nei cieli di Baltici e Polonia.

L’oligarca ultraortodosso Konstantin Malofeyev – proprietario di Tsargrad tv, che vagheggia la restaurazione dell’impero zarista – mentre il team negoziale russo arrivava in Turchia, ha dichiarato che comunque «la guerra continuerà per la liberazione della Novorossiya». I milblogger russi (blogger militari nazionalisti), star di Telegram, tremano all’ipotesi che il Cremlino ceda sul congelamento del fronte attuale: vogliono, invece, ampliarlo.

«Ci stiamo arrendendo»: se si fanno tacere le armi ora, si «consegna» il paese. A tuonare così Pavel Gubarev, che prima di aizzare milizie digitali su Telegram, ha fondato quelle popolari che diedero fuoco alle ceneri del conflitto nel 2014 ed è stato brevemente a capo della repubblica popolare di Donetsk.

Milizie digitali

Sono le milizie digitali Z – la stessa lettera che svetta pure sui carri armati al fronte, dove però il sangue che cola è quello dei soldati reali e non da tastiera – che hanno accusato le autorità in questi anni per le ritirate in Ucraina, la mancanza di preparazione dell’esercito o la perdita di influenza in Siria. E quando si lamentano, milioni di persone li ascoltano. Sui social sermoneggiano dal 2022: sono una falange digitale rivelatasi utile per il Cremlino, capace di indirizzare l’opinione pubblica e il suo dibattito, tenere alto il morale durante le sconfitte, ma sono oggi diventati un’enorme falce che vuole abbattersi su qualsivoglia compromesso con il blocco occidentale.

Ancora prima dell’apertura ai negoziati di pace con gli ucraini dall’altro lato del tavolo, i patrioti Z non hanno digerito quella subito offerta al team di Trump dopo la sua elezione alla Casa Bianca: l’hanno giudicata un dogovornyak, uno “sporco accordo” con i sempre nemici americani.

Il partito della guerra

Di falchi del partito della guerra sono pieni sia il ministero della Difesa che la Duma. Hanno silenziose ma robuste frange di rappresentanza tra i membri delle agenzie di intelligence. Una valvola di sfogo l’hanno trovata nel sempre bellicoso e belligerante Dmitry Medvedev, l’ex presidente che si è trasformato in uno sputa-fuoco di minacce all’Occidente.

Ma i nazionalisti sanno di non essere esenti dalle tradizionali purghe russe. La legge che punisce chi «discredita le forze armate russe» è valida anche per loro e a fare da memento a tutti è Igor Girkin, nome di battaglia Strelkov, finito in manette e poi dietro le sbarre. La cella però non lo ha condannato al silenzio: dalla prigione incita all’avanzata e scrive sui social: «Solo un idiota o un sabotatore che segretamente assiste il nemico potrebbe parlare della fine imminente della guerra e di qualsiasi compromesso».

Un altro ribelle è stato punito ancora più severamente: Prigozhin, lo “chef di Putin” a capo delle compagnia Wagner, esploso in volo.

Fondamentali dall’inizio del conflitto per amplificare la propaganda bellica, ora sono attenzionati dalle agenzie di sicurezza. Non costituiscono una minaccia per il governo o per il potere di Putin, ma non sono completamente sotto il suo controllo, hanno riferito recentemente in anonimo funzionari d’alto grado ai media occidentali.

Gli ufficiali non escludono che diventeranno un problema quando verranno tirate le linee delle frontiere e della pace sui documenti degli accordi che dovranno necessariamente essere firmati, prima o poi. E dovranno tacere quando servirà quiete prima della (vera) tempesta diplomatica.

Perché Putin, agli occhi del suo popolo, può apparire contraddittorio, ma non debole, e vuole porre fine alla guerra alle sue condizioni: dovrà farle accettare agli ucraini, agli occidentali, ma pure ai falchi radicali di casa sua.

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