I palestinesi? Portano solo guai. La doppia faccia dei paesi arabi

Come vivono i paesi arabi il secondo anniversario del 7 ottobre, spartiacque politico e militare che li ha obbligati a occuparsi nuovamente di quella questione palestinese che speravano ormai essersi gettati alle spalle? L’atteggiamento è ambivalente: nonostante il sentimento dominante sia quello della solidarietà verso i confratelli palestinesi, la mobilitazione delle piazze non è certo stata intensa. Fattore che non dipende, solo, dal ferreo controllo dei governi della regione su ogni forma di protesta, ma anche dalla convinzione, sempre più sedimentata, che, al di là della condivisione di un comune sostrato etnico, culturale, religioso, gli arabi abbiano interessi diversi. Del resto, la lunga trasformazione di quel pezzo di mondo della Mezzaluna per effetto del crollo dell’impero ottomano, della fase mandataria, infine della decolonizzazione, ha dato origine a Stati nazionali con precise fisionomie. Poco importa che a tracciarne i confini siano stati geografi coloniali britannici o francesi: un secolo dopo quegli Stati sono una realtà che, senza troppi entusiasmi, gruppi dirigenti e popolazione locale hanno accettato. Gaza sotto le bombe spera nel negoziato egiziano. Il pressing degli Usa Niente forza aggregativa Il panarabismo, dottrina che ha alimentato progetti unitari del mondo arabo sino ai primi anni Sessanta, è ormai un vago ricordo, una deriva ideologica del passato che nessuno rimpiange. Così come l’insistenza sull’equazione Israele-colonialismo che consentiva di sostenere la causa palestinese anche in armi. A partite dagli anni Settanta, la causa palestinese, anziché suscitare nuove e più attive solidarietà, perde progressivamente forza aggregativa. Sia i prezzi pagati dagli stati arabi nelle quattro guerre con Israele sia le necessità di quelle realtà in quanto alleate di Usa e Urss che dominano la scena internazionale bipolare sino al 1991, passando per tensioni interne provocate da eventi come il Settembre nero giordano del 1970 o gli sviluppi della guerra civile libanese nel 1982, consegnano i palestinesi – percepiti con il passare del tempo dai regimi della regione come “forieri” di guai – a una perifericità che sembrava impossibile solo qualche anno prima. A distanziarsene progressivamente sono innanzitutto i paesi confinanti con Israele, che hanno accolto un numero consistente di profughi dopo la Nakba, la “catastrofe” del 1948: Egitto, Giordania, Libano, Siria, sono i più colpiti dalle conseguenze di quell’esodo. Quando, alla fine degli anni Ottanta, con il crollo dell’Urss e la vittoria “monopolare” degli Usa il panorama mondiale muta e – negli anni seguenti – la questione islamista si sovrappone a quella palestinese, nelle vesti di Hamas o della Jihad islamica, vengono definitivamente lasciati a sé stessi. Un processo già in fieri ai tempi del vertice della Lega araba del 1974 a Rabat, nel quale l’Olp sarà riconosciuto come unico e legittimo rappresentante dei palestinesi, liberando i paesi arabi da ogni responsabilità nei loro confronti. Appartenenze nazionali, dinamiche di potere, alleanze regionali e extra-regionali, esigono il taglio di un cordone ombelicale percepito come sempre più soffocante, compiuto, al di là della retorica, senza troppe remore. Tra piazza e palazzo: anche per la destra i cortei pro Gaza sono un’occasione I rischi della guerra interna Una tendenza accentuata in seguito dalla crescente percezione dei rischi per la stabilità dei regimi legati dalla crescita di movimenti, come Hamas e altre branche locali della transnazionale Fratellanza musulmana, o di Hezbollah, stretto alleato dell’Iran, ritenuti dai poteri dell’area più pericolosi dello stesso Israele. La minaccia della guerra interna sopravanza, così, quella della guerra esterna. La deflagrazione delle “primavere arabe” che, a partire dalla fine della prima decade del nuovo secolo, provocano il collasso, o aggravano la crisi, di regimi nazionalisti come quello egiziano, siriano, libico, conducendo temporaneamente al potere, in Egitto e Tunisia per via elettorale, i partiti legati ai Fratelli Musulmani, allargano il fossato già scavato dopo l’ascesa al potere di Hamas a Gaza nel 2006. La presa dei movimenti islamisti che hanno carattere di partiti di massa, e non di avanguardie, induce i regimi arabi, in riva al Mediterraneo come nel Golfo, a cercare protezione negli Usa: opzione destinata a tradursi in un più conciliante rapporto con Israele in nome della lotta ai comuni nemici. Con l’Anp confinata e ridotta a servile notabilato locale e Hamas divenuto il principale alfiere della causa palestinese, non solo Israele, ma anche i principali paesi arabi si sfregano le mani. Gli islamisti non sono politicamente spendibili e l’avversità nei loro confronti consente alleanze, tacite o meno, altrimenti complicate. Uno stallo apparentemente perfetto: poi, il 7 ottobre, Hamas, che vede il cerchio stringersi, rompe drammaticamente i giochi. L’accordo su Gaza è più vicino. Trump a Hamas: «No ritardi» Ripensare il conflitto La reazione israeliana, con il tipo di guerra adottato a Gaza, costringe i regimi arabi, che ritenevano risolta la questione con gli Accordi di Abramo, a ripensare il nodo palestinese. E a cercare soluzioni per mettere fine a un conflitto che, per intensità e implicazioni, diventa deflagrante. L’enorme numero di vittime, il possibile esodo forzato dei palestinesi dalla Striscia verso Egitto e Giordania, l’annessione di Gaza e della Cisgiordania da parte di Israele, inducono il mondo arabo, dall’Egitto alla Giordania, dal Qatar all’Arabia Saudita, a tentare di limitare i rischi. Da qui non solo il ruolo di mediazione per una tregua, in particolare di Egitto e Qatar, ma anche un piano, nato su impulso egiziano ma condiviso dalla Lega Araba, che ritiene intangibili la Striscia e la Cisgiordania, destinate a veder sorgere il pur futuribile Stato palestinese nella cornice dei “due Stati”, e prevede un periodo di transizione destinato a sfociare nel passaggio del potere all’Anp. Ipotesi che, in campo palestinese, può avere anche il consenso, a certe condizioni, di Hamas, che, per sopravvivere, deve rinunciare a giocare un ruolo dirigente a Gaza e aderire all’Olp, accettando il principio dei “due Stati” fatto proprio nel 1988 dall’organizzazione allora guidata da Arafat. Unità di intenti che i paesi arabi, insieme alla Turchia, hanno cercato di far pesare nelle recenti discussioni con Trump: facendo balenare un possibile scambio politico tra l’accoglimento di alcune sue proposte qualificanti e la piena normalizzazione delle relazioni con Israele. Obiettivo non facile: nei “venti punti” della proposta Trump sono state recepite molte delle istanze di Netanyahu, non solo allontanando, nel tempo e in uno spazio indefinito, l’ipotesi di uno Stato di Palestina, ma anche escludendo un ruolo attivo dell’Anp in quello che viene presentato come scenario di transizione. Stretti tra peso delle alleanze e timori, i paesi arabi sono oggi consapevoli che la questione palestinese, data per inabissata sotto il peso della Storia, ripropone fratture e tensioni destinate a riverberarsi sull’intera regione. Le cento piazze d’Italia per Gaza e la Flotilla: «Siamo due milioni»