La riconquista talebana dell’Afghanistan a vent’anni dall’invasione occidentale è una disfatta epocale, ma era stata prevista dall’intelligence, benché non con tale rapidità. Completato il ritiro americano, il Pakistan ha mobilitato le sue risorse per garantirsi l’influenza sul paese tramite i Talebani.

Caduta Kabul, è cruciale capire se Al Qaida goda ancora della protezione dei Talebani e se l’Afghanistan possa tornare ad essere un santuario da cui lanciare attacchi all’Occidente, forse sotto la leadership del successore di Ayman al Zawahiri.

È utile chiarire questo equivoco perché un regime talebano, per quanto oscurantista e feroce, di per sé non costituirebbe una minaccia globale con ambizioni di espansione o destabilizzazione - l'etnia pashtun si estende a cavallo con il Pakistan, né si allontanerebbe molto da modelli teocratici come l'Iran e l'Arabia Saudita.

Se invece i Talebani dessero spazio ad Al Qaida lo scenario cambierebbe radicalmente. L'incubazione di un virus estremamente aggressivo, per il quale vent’anni di cure non sono apparentemente serviti, avrebbe conseguenze preoccupanti.

Infine, occorre rendere conto degli attori nel contesto geopolitico regionale, primo fra tutti il Pakistan, che tramite i suoi servizi (Isi) agevola e influenza i Talebani, ma anche il ruolo emergente della Cina, i timori della Russia e l'ambiguità dell'Iran.

Dopo l’undici settembre

L’attacco alle Torri Gemelle venne definito un accidente della storia, secondo la Commissione sul 9/11 non si trattò di una «intelligence failure» (un fallimento di intelligence) bensì una di una «failure of immagination» (fallimento di immaginazione). In realtà, vi erano state numerose e concrete avvisaglie sulla minaccia posta da Al Qaida e sui piani di dirottamento aerei, per Cia ed Fbi era dunque possibile non solo immaginare ma persino prevenire un attentato così ardito al cuore dell’America.

Paradossalmente l’articolo 5 della Nato sulla reciproca assistenza militare è stato invocato unicamente a causa di un attacco asimmetrico, compiuto da un’organizzazione non statuale. Nel 2015, invece, il governo francese definì il massacro del Bataclan un “atto di guerra” che richiedeva una risposta energica, simile alla “War on Terror” dell’amministrazione Bush. Ma Parigi non fece ricorso al medesimo articolo del Patto Atlantico, bensì all’articolo 42 del Trattato sull’Unione Europea, una clausola di mutua assistenza più simbolica e meno operativa.

L’11 settembre scatenò una crisi con implicazioni politiche e legali inedite, a cominciare dalla legislazione d’emergenza con limitazioni ai diritti civili, la creazione di commissioni militari fuori dalla giurisdizione Usa incaricate di processare i detenuti stranieri a Guantanamo.

Gli Stati Uniti trattarono i terroristi di Al Qaida non come criminali, quindi con gli strumenti penali ordinari, ma come «unlawful enemy combatants», perciò sottoposti a regimi speciali con meno garanzie (oltre all’impiego di tecniche di tortura all’epoca ritenute lecite dall’apparato di sicurezza americano).

I sondaggi e il ritiro 

Taliban officials arrange a Taliban flag, before a press conference by Taliban spokesman Zabihullah Mujahid, at the Government Media Information Center, in Kabul, Afghanistan, Tuesday, Aug. 17, 2021. Mujahid vowed Tuesday that the Taliban would respect women's rights, forgive those who resisted them and ensure a secure Afghanistan as part of a publicity blitz aimed at convincing world powers and a fearful population that they have changed. (AP Photo/Rahmat Gul)

La decisione di ritirarsi dall’Afghanistan, condivisa dalle amministrazioni Trump e Biden, si fonda sugli indici di gradimento della politica interna, piuttosto che sull’analisi della situazione reale. I progressi faticosamente ottenuti in vent’anni di missione Nato sono stati spazzati via in pochi mesi dall’avanzata talebana, che ha conquistato una dopo l’altra le province afgane con i loro capoluoghi.

Non si è trattato di un fallimento dell’intelligence ma della politica occidentale, che a fronte di una missione ventennale non è stata in grado di costruire qualcosa di solido e duraturo in Afghanistan, rendendo vano il sacrificio di migliaia di uomini, inclusi i 55 caduti italiani tra militari, cooperanti e funzionari dei servizi (D’Auria e Colazzo). Si è tornati al punto di partenza, con la differenza che questa volta i Talebani hanno anche messo le mani su armamenti e mezzi ceduti dalla Nato agli afgani. L’ex luogotenente di Al Qaida Abu Hafs al Mauritani ha condiviso sui canali telematici un’immagine eloquente, un meme, che ritrae in sequenza la disfatta britannica, la ritirata sovietica e quella americana.

Per secoli l’Afghanistan è stato al centro di quello che strateghi e storici hanno definito il Grande Gioco o il Torneo delle Ombre, ovvero gli sforzi russi e inglesi per affermare l’egemonia sull’Asia Centrale, regione decisiva per interessi contrapposti.

Nel “gioco” gli Stati Uniti hanno sostituito Londra, ma sono emerse altre potenze che ambiscono ad una sfera di influenza, a cominciare dalla Cina, dal Pakistan, dall’Iran e dalla Turchia. È ritornata, in un’altra veste, anche Mosca. In questo contesto, i governi non si sono fatti scrupoli nel servirsi di proxies, alleati locali e milizie dei signori della guerra.

Il Pakistan, tramite i suoi servizi di intelligence (Isi), ha mantenuto un rapporto ambiguo nei confronti dei Talebani, usati per assicurarsi il controllo dell’Afghanistan. Dall’altro lato, l’Iran ha esercitato una pressione sul versante orientale del paese, finanziando le milizie sciite degli Hazara e la brigata Fatemiyoun, impiegata anche in Siria, ma allo stesso tempo ha dialogato con i Talebani e continua ad ospitare a Teheran molti capi di Al Qaida, tra cui il potenziale leader Saif al Adl.

Con il ritiro della Nato, insieme alle mire di Pakistan e Iran, si affacciano le potenze dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (Sco), cioè la Cina e la Russia. La Cina ha interesse a mantenere stabile il corridoio asiatico per le Vie della Seta ed evitare l’espansione jihadista nello Xinjiang abitato dai musulmani uiguri. Così si spiega l’incontro del ministro degli Esteri di Pechino con i rappresentanti Talebani, che lo hanno rassicurato in tal senso. Ma Cina e Pakistan, nel Grande Gioco, agiscono di comune accordo anche in funzione anti-indiana.

La Russia fa opera di contenimento dell’estremismo verso l’Asia Centrale, per questo ha mobilitato i suoi alleati del Tagikistan e Uzbekistan con colossali esercitazioni ai confini afgani. Non è un caso che il segretario generale della Sco sia l’uzbeko Vladimir Norov, che ha consolidato una dottrina antiterrorismo molto rigida dettata da Pechino e Mosca.

Cosa vuole la Turchia

Infine, la Turchia mirava al controllo dell’aeroporto di Kabul e ha finanziato le milizie tribali turcofone dell’Afghanistan, come quella uzbeka di Abdul Rashid Dostum. I Talebani hanno saccheggiato la sua residenza e si sono fatti fotografare indossando la sua uniforme da maresciallo. Uno dei figli di Dostum, Yar Mohammad, era comandante della locale guarnigione dell’esercito afgano, oltre che della milizia etnica, e ha ricevuto addestramento nelle accademie militari turche, mentre il figlio Batur ha sposato la figlia del generale di brigata turco Levent Çolak.

Già nel 2010 i due figli uscirono incolumi da un’imboscata talebana. Anche i tagiki hanno schierato le loro milizie contro i Talebani, come fece vent’anni fa Ahmad Shah Massoud, il “Leone del Panjshir”, assassinato da sicari tunisini di Al Qaida due giorni prima dell’11 settembre 2001. Ismail Khan e Atta Mohammad Noor sono intervenuti nelle regioni del nord-ovest al fianco delle truppe governative, ma non è bastato. Khan è stato catturato dai Talebani a Herat e ha negoziato il suo esilio in Iran.

Il governo di Kabul aveva formato una coalizione con i signori della guerra, ma ha mandato un segnale disperato, di estrema debolezza, proponendo ai Talebani di condividere il potere. Le forze di sicurezza e il governo afgano sono collassati con una rapidità sconvolgente anche per gli analisti. Il presidente Ghani è fuggito dal paese, se fosse rimasto a Kabul, avrebbe probabilmente fatto la fine del presidente Najibullah, evirato e impiccato ad un semaforo della capitale nel 1996.

Tra l’Emirato e Al Qaida

FILE - This frame grab from video shows al-Qaida's leader Ayman al-Zawahri in a videotape issued Saturday, Sept. 2, 2006. The leader of al-Qaida has called for attacks on Saudi Arabia after the kingdom's mass execution of 47 people in January, many of whom were tied to the terror group. Al-Zawahiri's comments came in a seven-minute audio recording released earlier this week and reported by a U.S.-based terror monitor, the SITE Intelligence Group, on Thursday, Jan. 14, 2016. (militant photo via AP video, File)

Molti hanno scritto che i Talebani avrebbero potuto entrare a Kabul l’11 settembre, prendendosi una rivincita simbolica dall'attentato, ma quella fu l’azione di Al Qaida, non dell'Emirato Islamico del Mullah Omar. Non avrebbero avuto interesse a dare un messaggio di plateale sostegno (e subalternità) alle ad Al Qaida. La leadership talebana ha finto di aver interrotto i rapporti con l’organizzazione di Bin Laden e al Zawahiri, prima assicurandolo agli americani a Doha, più recentemente nei colloqui con la Cina.

Il tema centrale è appurare se effettivamente i Talebani hanno mantenuto i legami storici con Al Qaida. Il governatore della provincia di Helmand aveva già confermato la presenza di un campo di addestramento qaedista di sostegno ai Talebani, mentre il generale Sami Sadat, comandante del 215° corpo d’armata dell’esercito afgano, ha affermato di aver ucciso trenta membri di Al Qaida nel Subcontinente Indiano (Aqis) distaccati dal Pakistan e settantotto tra siriani, irakeni, yemeniti, sauditi e un qatarino nella provincia di Helmand.

Un ufficio delle Nazioni Unite preposto all’analisi della minaccia terroristica in Afghanistan ha pubblicato rapporti annuali che confermano il perdurante vincolo fra i due gruppi. Nel 2020, i Talebani hanno regolarmente consultato il gruppo di Zawahiri nel corso dei negoziati a Doha, mentre Al Qaida era presente in almeno 12 province afgane con un numero stimato di 400-600 mujaheddin. Nel 2019 si tenne un incontro bilaterale tra i vertici per rassicurare i qaedisti sul mantenimento dei rapporti, cementati anche da matrimoni tribali. Il 23 settembre di quell’anno, a margine di una riunione, il capo di Al Qaida nel Subcontinente Indiano, Asim Umar, fu ucciso da un drone americano insieme a un corriere di al Zawahiri. La rete Haqqani, una delle correnti del movimento talebano, propose la creazione di un contingente di duemila uomini con il sostegno di Al Qaida.

L’Onu conferma Al Qaida

A Taliban fighter stands guard at a checkpoint in the Wazir Akbar Khan neighborhood in the city of Kabul, Afghanistan, Wednesday, Aug. 18, 2021. The Taliban declared an "amnesty" across Afghanistan and urged women to join their government Tuesday, seeking to convince a wary population that they have changed a day after deadly chaos gripped the main airport as desperate crowds tried to flee the country. (AP Photo/Rahmat Gul)

Il rapporto Onu del 2021 conferma il precedente, con la presenza di Al Qaida in 15 province afgane, principalmente del sud-est, mentre ha assunto un ruolo di rilievo la filiale Al Qaida nel Subcontinente Indiano, nonostante l’uccisione di alcuni suoi comandanti. Ayman al Zawahiri è ritenuto nascosto nella regione di confine col Pakistan. Se le informazioni sulla sua morte fossero confermate, a succedergli potrebbe essere Saif al Adl, attualmente nascosto a Teheran dai Guardiani della Rivoluzione iraniani.

A ulteriore conferma del fatto che i Talebani continuino a proteggere Al Qaida, vi è l’eliminazione nel 2019 di Hamza Bin Laden, ucciso da un drone nella provincia afgana di Ghazni, mentre nel 2020 l’antiterrorismo afgano ha eliminato l’egiziano Husam Abd al Rauf, ideologo e portavoce noto come Abu Muhsin al Masri, sempre nella provincia di Ghazni.

In questo contesto si inserisce l’attività dello Stato Islamico nel Khorasan, che è in aperto conflitto con i Talebani, criticati anche per aver dialogato con “i miscredenti" di Pechino. Negli ultimi anni, gruppi jihadisti pakistani dei territori tribali si erano avvicinati allo Stato Islamico, ma quando avevano capito di non poter agire in autonomia e di dover osservare le gerarchie imposte dall’Iraq hanno abbandonato l’organizzazione. Lo Stato Islamico potrebbe essere usato indirettamente da attori regionali per destabilizzare un Afghanistan talebano, dove comunque operano sacche di resistenza delle milizie etniche e di ciò che resta dell’esercito afgano.

Insomma, i Talebani danno ancora sostegno concreto e ospitalità ad Al Qaida, i cui militanti hanno partecipato alla riconquista del paese. Occorre considerare che i Talebani di oggi sono una coalizione eterogenea di fazioni e clan, in cui potrebbe prevalere la componente più “moderata”, disposta a interrompere i rapporti per ottenere il riconoscimento della comunità internazionale. Più probabile che pubblicamente il legame venga negato, perché devono rassicurare Cina e Russia, ma di fatto resti operativo, con una rinnovata leadership pronta a sfruttare il santuario per ridare slancio all’organizzazione terroristica contro l’Occidente.


Il popolo afghano negli ultimi quaranta anni ha vissuto sofferenze inimmaginabili. Solo nel 2021 circa 550mila persone sono state costrette ad abbandonare le proprie case. Sono donne e bambini a pagare il prezzo più alto. Unhcr ed Emergency sono ancora in Afghanistan per aiutarli. Ognuno può dare il proprio contributo con una donazione, bastano pochi click.
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