Papa Francesco, durante l’Angelus di domenica, ha detto di essere “molto addolorato” per la decisione del più alto tribunale amministrativo turco di trasformare il complesso di Santa Sofia a Istanbul in una moschea. Si tratta di un messaggio preciso da parte del Papa che nel 2016 aveva condannato il genocidio degli armeni, ma che non necessariamente intaccherà i rapporti con il presidente turco, considerato l’urgente bisogno di Ankara, piuttosto isolata sul piano geopolitico, di non inimicarsi del tutto la Santa Sede. Inoltre, più che essere una questione di scontro con il Vaticano, la vicenda di Santa Sofia riflette il tentativo del presidente turco, Recep Tayyp Erdogan, di consolidare la sua popolarità. La maggioranza dei turchi è favorevole alla riconversione di Santa Sofia, che è stata una moschea dal 1453 al 1935, quando è stata trasformata in un museo.

Il segnale della Santa Sede va letto all’interno della politica estera di Francesco, che soppesa con cura i temi più complicati sui quali intervenire e quelli invece che preferisce omettere, come la difesa dei manifestanti di Hong Kong, largamente ignorata da Bergoglio.

Il dialogo con la Turchia è stato aperto ormai parecchio tempo fa e anche Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno approfondito molto questo rapporto. E’ evidente che il presidente turco non possa non essere considerato un interlocutore autorevole nel mondo musulmano, a prescindere dalle sue azioni politiche e militari.

Certo è che la Chiesa, che abbraccia una dottrina realista nelle relazioni internazionali, non ha mai evitato rapporti con figure autoritarie, come Muammar Gheddafi, Bashar al Assad e Saddam Hussein. Bergoglio ha incontrato il presidente russo Vladimir Putin tre volte, per mettere a tema la tutela della minoranza cristiana in medio oriente.

Nei rapporti con Pechino la Santa Sede si muove su un crinale scivoloso. Per l’Angelus del 5 luglio la bozza del discorso diffusa ai giornalisti accreditati presso la Santa Sede conteneva un paragrafo in cui invitava gli abitanti di Hong Kong “ad affrontare con coraggio umiltà e non violenza” la situazione. Il passaggio è però scomparso dal discorso pronunciato dal Palazzo apostolico.

Una decisione su cui potrebbe aver pesato l’intervento di Pechino: “Mi sembra plausibile che ci siano stati scambi di vedute franchi, ma penso che in ogni caso la valutazione finale sia stata legata alla convenienza di quella presa di posizione, non a un ricatto da parte del governo cinese”, dice Manlio Graziano, professore di geopolitica alla Sorbona e a Sciences Po.

Sulla Cina si gioca molto della dimensione geopolitica del pontificato di Bergoglio. Il preaccordo con Pechino, firmato nel 2018, sul riconoscimento della chiesa ufficiale nel paese ha avuto un posto centrale nella comunicazione politica del Vaticano. La firma che avrebbe un valore storico per Roma, che ufficialmente non riconosce il governo cinese, ma nei fatti sta intessendo già da tempo rapporti per concludere il lavoro iniziato da Matteo Ricci, gesuita anche lui, come Francesco.

Un accordo per risolvere la questione dei cristiani clandestini con soddisfazione di Pechino sembra vicino, e per questo intervenire ora su una questione delicata come quella di Hong Kong complicherebbe le cose per Roma. Restano però alcune voci di peso che hanno criticato questa scelta.

Il cardinale di Hong Kong in pensione, Joseph Zen Ze-kiun, ha definito il silenzio del papa “vergognoso”, e il futuro accordo un compromesso che “non farà avere nulla in cambio” a Roma.

L’altro tema spinoso per la Santa Sede è quello dei migranti. “Il più grande insuccesso per Bergoglio consiste nel fatto che, su questo argomento, la maggioranza del gregge continua a mostrarsi ostile alle parole del pontefice”, dice Graziano.

Dopo un primo viaggio a Lampedusa, nel 2013, Francesco è tornato spesso sulla questione, citata sovente nelle sue omelie. “Su migranti e musulmani, il papa mantiene la linea del Concilio Vaticano II, come hanno fatto prima di lui Wojtyla e Ratzinger. Non c’è ragione di dubitare che sarà anche quella del futuro prossimo”, spiega il professore.

I fedeli rischiano però, in alcuni casi, di smarcarsi dalla linea di Roma. I rapporti con alcune frange della curia degli Stati Uniti sono sempre più tesi: nel 2019, un gruppo di parroci e teologi sono arrivati ad accusare addirittura di eresia il papa. Oltre alle questioni interne, però, Francesco ha ripetutamente preso posizioni contrarie a quella del presidente Donald Trump, non ultimo sui fatti di Minneapolis. Tuttavia, nonostante tutti i dissensi, compromettersi con una posizione anti Trump sembra una mossa pericolosa. Soprattutto considerato che i maschi cattolici bianchi hanno votato in maggioranza per il presidente.

I dossier sulla scrivania di papa Bergoglio sono molti, ma la chiesa cattolica non ragiona soltanto sulla prospettiva breve: non è detto che il valore della sua agenda non si riveli soltanto nel lunghissimo termine.

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