In guerra le immagini parlano più delle parole. Appare orrendamente banale dirlo adesso, davanti all’eccidio di Bucha, ai cadaveri dei civili disarmati disseminati lungo le strade, alle fosse comuni, ai corpi di uomini e donne marchiati dai segni delle torture subite prima di essere uccisi.

E davanti ai corpi dei bambini, uccisi e torturati anche loro, con una furia indiscriminata che abbiamo già visto in altre guerre e che tuttavia ci appare ogni volta nuova e sconcertante. I bambini occupano un posto privilegiato nel repertorio del dolore catturato dalle lenti degli operatori e dai reporter di guerra, e l’Ucraina non fa eccezione. I bambini sono fotogenici. Persino nel dolore.

Spesso, persino nella morte. E sono potenti. Hanno il potere di concentrare, almeno per un momento, le nostre emozioni e di farci sentire quanto indicibilmente odioso sia quello a cui stiamo assistendo.

Le immagini dei bambini in guerra sono sempre parziali, non raccontano la complessità delle storie di cui colgono solo un momento. E tuttavia, quei momenti – catturati, preservati e rilanciati – sono di fondamentale importanza. L’immagine di Pham Thi Kim Phuc, così si chiamava la bambina che nel giugno del 1972 venne immortalata mentre fuggiva dalle fiamme scatenate dal napalm americano, avrebbe testimoniato il quotidiano orrore della guerra del Vietnam ben oltre la caduta di Saigon. Nel settembre del 2015, il corpo di Alan Kurdi riverso sulla spiaggia di Bodrum divenne il più eloquente atto d’accusa contro un continente determinato a tenere chiuse le proprie porte ai profughi siriani e ai tanti civili vulnerabili e inermi lasciati morire nel Mediterraneo. Nell’agosto del 2021, le immagini dei bambini affidati dalle madri a braccia sconosciute ma capaci di portarli via da Kabul rivelarono le lacerazioni insanabili create dall’ennesimo fallimento occidentale. È una lista che potrebbe continuare a lungo.

Ci sono molti bambini anche nella galleria di immagini, ogni giorno più atroci, che si lascia dietro la guerra scatenata da Putin in Ucraina. La prima guerra europea del Ventunesimo secolo, così simile per immagini e temi ai conflitti che hanno dilaniato l’Europa nello sventurato secolo breve che pensavamo di esserci lasciati alle spalle.

L’immagine di un’assenza

Nella mia personale galleria dell’invasione ci sono i ragazzini che nei primi giorni di guerra collaborano alla preparazione delle bottiglie molotov a Kiev. Un bambino nascosto in un rifugio improvvisato che parla al suo canarino attraverso le sbarre della gabbietta. Un ragazzino di forse dieci anni con in braccio un neonato infagottato, in piedi in un mare di corpi piccoli e grandi distesi sotto le coperte.

L’ennesimo rifugio ricavato dai garage e dalle cantine. È il volto di questo bambino a dirci che questi fagotti immobili sono esseri umani. L’ultima immagine della mia galleria, ma so bene che molte altre se ne aggiungeranno, non è quella di un bambino bensì di una piccola bambola sgualcita. È stata lasciata cadere lungo una strada di Bucha ed è rimasta chissà perché appoggiata a un’auto crivellata di colpi. Dei bambini che di quella bambola si sono presi cura in questo lunghissimo mese non c’è traccia. L’immagine dei bambini di Bucha è per me l’immagine di un’assenza.

La mia personale galleria ha seguito l’andamento della guerra: la mobilitazione dei cittadini che si preparavano alla resistenza nei primi giorni dell’invasione; il tentativo di sopravvivere alla più disumanizzante delle condizioni, l’assedio delle città, in cui la fame e il freddo diventano armi in mano agli occupanti al pari delle bombe; l’uccisione sistematica dei civili da parte di soldati istruiti a distruggere il nemico.

I bambini sono ovunque. Nella battaglia collettiva per la resistenza della nazione, nella battaglia individuale per la vita, nella violenza dell’eccidio perpetrato per le strade di una città occupata.

Qualche giorno fa mi ha chiamato un’amica da Varsavia. Vedo la guerra, mi ha detto. Ogni giorno, negli occhi delle donne e dei bambini che sono arrivati qui. Guardo questi bambini e mi rendo conto che sto guardando la guerra. Poi penso a quelli che sono ancora lì. Con quella stessa amica, anni fa abbiamo a lungo discusso delle fotografie scattate a Varsavia fra il 1943 e il 1945.

Anche quelle fotografie erano piene di bambini e dei loro oggetti. Bambini che giocano nelle macerie; bambini che vendono piccoli oggetti agli angoli delle strade; bambini denutriti nelle strade del ghetto.

Una bambina gracile con in braccio un fratellino in fasce; un ragazzino, seduto su un mucchio di detriti che è stato forse la sua casa, tiene sulle ginocchia una gabbietta con dentro un canarino; un cavallo a dondolo appoggiato ad una porta divelta. Lo sfondo è sempre lo stesso, cumuli di macerie, case crollate, un deserto di cenere e calce.

Fra i molti paralleli storici proposti da vari osservatori dall’inizio della guerra, il più ovvio e terribile è raccontato da queste immagini, così stranamente simili a quasi 80 anni di distanza. I bambini che sopravvissero alla distruzione di Varsavia oggi sono molto vecchi. Come sono molto vecchi coloro che da bambini sopravvissero la ferocia delle Seconda guerra mondiale in Ucraina e che oggi vedono ancora una volta distrutta la loro casa e la loro famiglia, e forse uccisi i loro nipoti e pronipoti. In un ripetersi della storia che è scritto nei corpi prima ancora che negli assetti politici.

Quello fra la Seconda guerra mondiale e l’invasione dell’Ucraina, però, non è un parallelo, bensì una sorta di perversa filiazione. La Seconda guerra mondiale segnò l’inizio delle guerre in cui le vittime civili non rappresentavano più un effetto collaterale, ma il mezzo privilegiato per piegare il nemico o per punirlo.

Quello di Bucha non è un episodio eccezionale, bensì l’esito estremo di una guerra fatta per distruggere il nemico che rifiuta di arrendersi, anche quando quel nemico ha il volto di un vecchio o di un bambino. Abbiamo letto e sentito dire spesso in queste settimane che l’assedio di Mariupol ci riporta a guerre antiche, medievali. Ma per riflettere su come e perché la popolazione inerme sia diventata sempre più un target specifico nei conflitti e gli eccidi di civili un elemento costitutivo dall’orrendo tutto della guerra bastano gli ultimi cento anni.

“Il secolo dei bambini”

In un apparente paradosso, il Novecento, ovvero il secolo in cui proprio i più giovani hanno maggiormente sofferto la violenza dei conflitti scatenati dagli adulti, è stato letto da molti storici come “il secolo dei bambini”. I milioni di bambini morti ad Auschwitz, nei bombardamenti a tappeto di Dresda o di Berlino, nell’infinita battaglia di Stalingrado, nella gola di Babi Yar e in tutti gli altri luoghi di morte in cui si trasformò l’Europa fra il 1939 e il 1945, rivelarono il volto più feroce della storia e della cultura di questo continente. Fu forse per questo che proteggere i bambini divenne un mantra della ricostruzione, tanto a occidente quanto a oriente della cortina di ferro.

Non perché le società del dopoguerra fossero diventate sagge o benevole, ma perché avevano intuito che quello che sarebbe successo ai bambini avrebbe determinato il futuro di tutti. Non solo psicologi e medici, ma anche politici e intellettuali si interrogarono sui bambini e sulle loro ferite. Pensiamo soltanto agli scritti di Anna Freud, John Bowlby, Donald Winnicott, e Bruno Bettelheim. Alla scelta di Calvino di raccontare la Resistenza attraverso la storia di Pim, a Germania anno zero, in cui Roberto Rossellini racchiuse nella storia di un ragazzino di undici anni il trauma, la desolazione e il senso di colpa di una nazione, e forse di un intero continente.

Ma non furono solo gli adulti a parlare per i bambini, furono i protagonisti stessi a raccontare storie di dolore e resilienza, di lunghissimi viaggi, di paura e di perdita, ma anche di riparazione e ritorno alla vita. Anche dall’Ucraina assediata ci giungono, insieme alle immagini dei morti, giovani voci di resistenza e resilienza, ed è fondamentale ascoltarle. Il costo pagato dai civili e dai bambini nella Seconda guerra mondiale motivò la creazione della rete di organizzazioni internazionali alle quali abbiamo affidato la cura di valori che pensavamo universali. Uno di questi, come sosteneva il primo direttore esecutivo dell’Unicef Maurice Pate, è che non ci sono bambini nemici. Le immagini che ci arrivano oggi dall’Ucraina ci chiedono conto: cosa ne è stato di quelle istituzioni? Qual è il loro ruolo oggi? Quale la loro capacità di difendere i più vulnerabili?

Anche i bambini senza nome che riempiono adesso i nostri schermi saranno scritti in storie più grandi di loro, storie di dolore, di resistenza e di ricostruzione. Perché niente come i bambini incarna il nostro senso del futuro e della storia dalla quale veniamo. I bambini amplificano le nostre speranze quanto le nostre paure e interrogano le nostre coscienze. I bambini in guerra rivelano la debolezza delle nostre istituzioni, scardinano le nostre certezze e ci costringono a ripensare chi siamo. Soprattutto, i bambini ci impongono di scegliere chi vogliamo essere.

 

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