«Sono scappata con mia zia di notte. Tutte le scuole erano state chiuse dagli Amba boys (i gruppi armati separatisti, ndr) e non potevo continuare a studiare», dice Vanessa, 17 anni, con un sorriso triste e mite, fuggita dalla provincia di Kumbo e giunta senza nulla nella città di Bamenda. 

«E lei signora?» «Un giorno sono tornata a casa dal lavoro e l’ho trovata internamente bruciata», dice Florence, una donna sulla cinquantina, in fuga qualche mese fa, anche lei da Kumbo, con cinque figli e cinque nipoti. «I militari avevano dato alle fiamme un gruppo di case del mio villaggio perché sospettavano che in una di esse ci fosse un uomo che preparava da mangiare per gli Amba».

800mila sfollati interni

Comincia così il viaggio nelle regioni anglofone del Camerun, una delle aree più ricche e produttive dell’Africa occidentale, sprofondata in una condizione da pre-guerra civile dai contorni inquietanti.

Vanessa e Florence, incontrate assieme a una altra ventina di persone a Bamenda, il capoluogo dell’area, due milioni di abitanti, la terza città del Camerun dopo la capitale Yaoundé e Douala, fanno parte del disperato esercito degli 800mila sfollati interni scampati al terrore di stragi, omicidi, sparizioni, rapimenti, mutilazioni e incendi che dal 2017 da queste parti sono diventati quotidianità.

«Da noi – dice l’Arcivescovo cattolico di Bamenda, Andrew Nkea Fuanya, un uomo chiave nella difficile strada di ricomposizione del conflitto – avvengono crimini spaventosi da ormai cinque anni giorno dopo giorno, eppure della nostra crisi e della infinita sofferenza del nostro popolo non parla nessuno. Qui di giornalisti se ne vedono davvero pochi».

In Camerun, l’alito mefitico del colonialismo sparge ancora i suoi miasmi. Tedesco fino alla fine della Grande guerra, passò nelle mani di due potenze vincitrici – Francia e Inghilterra – al termine del conflitto.

La zona sud-occidentale, a ridosso della già inglese Nigeria (il 20 per cento circa del territorio), fu posta sotto l’influenza della Gran Bretagna, il restante 80 per cento, confinante con colonie francesi, andò a Parigi.

Nel 1960, la parte francofona guadagnò l’indipendenza. Quella anglofona, invece, restò in sospeso per un anno e, mentre gli inglesi si ritiravano senza spargimenti di sangue, le Nazioni unite sponsorizzarono un referendum in cui si chiedeva alla popolazione di scegliere se confluire nella Nigeria o nella neonata Repubblica del Camerun.

Prevalse di poco la volontà di unirsi al resto del Camerun. «Ci avrebbero dovuto sottoporre una terza possibilità», è sicuro Ncham Godwill Chiatoh, un attivista locale: «“Volete essere uno stato autonomo?” Con tutta probabilità avrebbe vinto questa opzione e sarebbe cominciata un’altra storia».

La popolazione anglofona, in realtà, votò a favore dell’ingresso nella Repubblica del Camerun nella prospettiva stabilita nel 1961 di far parte di uno stato federale.

Ottenne infatti un proprio parlamento e un governo regionale eletto, e si garantì una certa autonomia nella gestione della lingua, dei sistemi giudiziario e scolastico, strutturati sul modello inglese e decisamente diversi da quelli utilizzati nella parte francofona.

Quando, però, nel 1972 il potere centrale abbandonò il modulo federale e proclamò la Repubblica Unita del Camerun (poi divenuta l’attuale Repubblica del Camerun nel 1984), le tensioni cominciarono a farsi sentire. «In quel periodo – riprende Chiatoh – erano stati scoperti qui da noi i primi pozzi petroliferi e le nostre regioni cominciarono a rappresentare, anche per altre risorse, uno dei motori trainanti per l’economia nazionale». Yaoundé, quindi, non volle rinunciarvi.

Escalation militare

Ma anziché adottare una politica che tenesse conto delle ricchezze e delle diversità, il governo centrale mostra arroganza e indifferenza.

I malumori restano per decenni ed esplodono nel 2016 quando insegnanti e avvocati inscenano scioperi e imponenti manifestazioni rifiutandosi di andare in scuole o in tribunali irrispettosi dei propri sistemi.

Il governo arresta centinanti di docenti e avvocati e mostra il volto duro a chi cavalca le proteste, fino a quel momento assolutamente pacifiche, per chiedere equità.

Nel 2017, a ottobre, i separatisti proclamano la Repubblica indipendente di Ambazonia e cominciano a far circolare armi tra i loro affiliati. Quando entrano in una caserma e decapitano quattro militari, il governo invia truppe in grandi numeri a presidiare l’area.

Gli Amba Boys, profondi conoscitori della zona ed esperti della vita nelle foreste, adottano una strategia simile a quella dei Viet Kong: blitz rapidi nelle caserme per uccidere militari e rastrellare il maggior numero di armi.

L’esercito, invece, risponde dando alle fiamme indiscriminatamente villaggi interi sospettati di dare rifugio agli indipendentisti. In mezzo, la popolazione civile sprofondata in un incubo inimmaginabile fino a qualche anno prima.

I “ghist town mondays”

Gli Amba impongono la chiusura delle scuole perché «strumenti del potere governativo» e lasciano i ragazzi che sostengono di voler difendere, senza istruzione (in alcune aree, le scuole non funzionano da cinque anni), costringono le città ai cosiddetti ghost town mondays (lockdown di ogni singola attività ogni lunedì da cinque anni a questa parte) e terrorizzano la popolazione con uccisioni, mutilazioni, minacce, rapimenti.

L’esercito, da parte sua, odiato dalla stragrande maggioranza della popolazione, usa il potere che gli è stato conferito per seminare orrore e paura.

Il tutto, nell’indifferenza assoluta della comunità internazionale. «Il primo passo verso una normalizzazione – chiude monsignor Nkea – è che voi giornalisti facciate conoscere al mondo la nostra situazione».

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