Dopo il 1945, i buoni propositi degli Stati Uniti, risalenti a George Washington, riguardanti il tenersi fuori dagli affari del mondo, non sono stati più perseguiti. Anzi, gli Stati Uniti sono diventati la superpotenza globale per eccellenza: molto più forte di ogni altra, anche dell’Unione sovietica dello Sputnik.

Oggi, con il ritiro dall’Afghanistan completato il 30 agosto, con un giorno di anticipo, c’è un ridimensionamento di questa ambizione globale. È inevitabile, dopo due presidenze di segno opposto che concordavano solo sulla necessità di ridurre gli impegni statunitensi.

Ciò non vuol dire però che il ruolo del consigliere per la sicurezza nazionale si riduca, anzi, ne rafforza la necessità in questa fase transitoria. Jake Sullivan rimarrà al suo posto oppure verrà sostituito e indicato come capro espiatorio? La figura di un consigliere per la sicurezza nazionale è nata nel 1953 dopo che nel 1947 era stato istituito un Consiglio per la sicurezza nazionale. Come si era arrivati a questa situazione peculiare? 

La trovata di Truman

Il presidente subentrato all’esperto Franklin Delano Roosevelt era Harry Truman, un ex senatore del Missouri scelto dalla convention del 1944 come compromesso centrista tra il vicepresidente uscente, l’ultraprogressista Henry Wallace, e il conservatore James Byrnes, direttore dell’ufficio della mobilitazione bellica.

La sua preparazione in politica estera era praticamente inesistente. E anche la politica interna non andò bene nel 1946: con la rimozione dei controlli ai prezzi, l’inflazione salì bruscamente e tutto il paese fu percorso da un’ondata di scioperi.

Per la prima volta dal 1930, i repubblicani vinsero le elezioni di midterm. La stampa parlò di Truman come di un “presidente accidentale”, non adeguato al ruolo. Anche per questo scelse di istituire un consiglio di sicurezza, composto dai membri dell’amministrazione come il segretario di Stato e quello alla difesa e ai capi delle agenzie di intelligence, in modo da coordinare la politica estera e di difesa e di conseguenza avere una visione a 360 gradi sulla sicurezza della nazione e, per estensione, a quella degli alleati decisi durante la conferenza di Yalta.

Anche in questo modo Truman riuscì, in virtù del suo carattere che ben presto si scoprì essere fortemente decisionista, a uscire dalle secche e a essere rieletto nel 1948, contro ogni pronostico. Sotto la sua guida venne costituito quello spazio politico e militare che oggi definiamo con il termine generico di occidente.

Fu però il suo successore, Dwight Eisenhower, a dotarsi di un consigliere specifico nella persona del suo speechwriter Elliott Cutler, non esattamente un esperto di politica internazionale. Ma come ricordò Richard Nixon in un’intervista del 1991, Eisenhower prendeva le decisioni durante le crisi da solo, dopo aver consultato a dovere tutti i membri del consiglio di sicurezza e in certi casi aver richiesto un’ulteriore consulenza. La decisione finale però, rimaneva la sua.

La mano di Kissinger

Non si può dire lo stesso di quanto successe quando Nixon venne eletto presidente. La figura da lui scelta, Henry Kissinger, si avvantaggiò molto di questa peculiare posizione: formalmente era soltanto un membro dello staff presidenziale, non soggetto alla conferma da parte del Senato, addetto soltanto a proporre alcune opzioni di policy al presidente.

Ne divenne invece il suo sostituto per quanto riguardava le decisioni di politica estera, filtrando le informazioni che giungevano al presidente e guidandone la mano in molti casi. Non c’è stato più nessuno che ha avuto questo potere, ma è indubbia l’influenza di questa figura: ricordiamo il ruolo determinante di Condoleeza Rice nell’indirizzare la guerra al terrorismo o da un’altra Rice, Susan, nel guidare il disimpegno degli anni di Obama.

Nessuno ha avuto però la disgrazia di durare meno di un mese come l’ex generale Michael Flynn, silurato per i suoi discussi legami con la Russia e la Turchia.

Veniamo dunque al presente: Jake Sullivan ha solo 44 anni ed è il più giovane consigliere per la sicurezza nazionale di sempre, con un curriculum impeccabile, almeno sulla carta. Nato nel Minnesota, membro del team che ha negoziato l’accordo sul nucleare iraniano durante gli anni di Obama, Sullivan vorrebbe essere ricordato come il nuovo Brent Scowcroft, l’advisor di Gerald Ford e Bush senior noto per i suoi giudizi equilibrati.

Ma è chiaramente un uomo di formazione clintoniana: non per nulla Hillary Clinton lo ha definito «un diplomatico nel vero senso della parola».

Lo sguardo all’interno

Avrebbe anche una sua dottrina da stilare, sull’esempio di alcuni suoi predecessori: basare le decisioni in politica estera sul benessere della classe media americana, in modo da non perdere il loro sostegno. Niente nuove avventure all’estero e nessuna velleità di risolvere ogni problema.

Il subordinare queste politiche ai bisogni interni è stato giudicato da un altro advisor, John Bolton, «semplicemente sbagliato». Sulle pagine di Foreign Policy l’ex consigliere di Donald Trump ha affermato che anche uno dei pochi obiettivi condivisi dalle amministrazioni di Trump e di Biden, ovverosia il contenimento della Cina, ha bisogno di una maggior presenza americana sulla scena internazionale.

Le azioni di Sullivan in Afghanistan, dove lui e altri membri del consiglio per la sicurezza hanno cercato di minimizzare il caos del ritiro americano, sembrano collimare con la descrizione feroce fatta su Twitter dal senatore repubblicano Marco Rubio di «educato custode del declino americano». Il suo obiettivo rimane sempre il contrasto con Pechino perché, ritiene, è sull’eccessiva fiducia nei benefit della globalizzazione che si è persa quell’America profonda su cui il trumpismo ha fondato le proprie fortune.

Contrastare lo strapotere economico della Cina in modo efficace potrebbe essere la chiave per un doppio obiettivo: vincere la nuova competizione globale e riconquistare una fetta di classe media perduta negli ottimisti anni obamiani.

Il ritiro

Però l’Afghanistan rimane un grosso problema anche dopo il ritiro. Al momento, gli Stati Uniti sono privi di una presenza in Asia Centrale, dopo vent’anni di presenza che si era allargata fino al 2014 in Kirghizistan e fino al 2005 in Uzbekistan.

Con quest’ultimo paese sono in corso trattative per ottenere una nuova installazione militare sfruttando i rapporti glaciali di Tashkent con Mosca e la cooperazione militare attiva tra l’esercito uzbeko e la Guardia Nazionale del Mississippi, partnership attivata nel 2012. Lo scorso 1° luglio c’è anche stato un incontro a Washington tra il segretario della Difesa Lloyd Austin e il suo omologo uzbeko Abdulaziz Kamilov per discutere anche di questa possibilità.

Bisogna dire però che all’epoca si prevedeva una resistenza del governo afghano simile a quella attuata dal governo comunista di Mohammed Najbullah dopo il ritiro sovietico del 1989, ma così non è stato e le motivazioni sono state ampiamente analizzate altrove.

Quello che però pesa sul cursus fino a poche settimane fa immacolato di Sullivan è il suo aver ripetutamente ignorato gli avvertimenti sull’imminente collasso dell’Afghanistan di Ghani. Anche se la presa dei Talebani non è così salda come sembrava in un primo momento, potrebbe essere lui il capro espiatorio designato, anche se, stando a un report di Axios, Joe Biden ha fama di essere esigente e difficile per i suoi collaboratori, ma anche di essere tendenzialmente leale nei loro riguardi.

Potrà quindi Sullivan salvare la propria carica così come fece Henry Kissinger dopo la caduta di Phnom Penh nelle mani dei khmer rossi nel 1975? Si tratta di un esempio che  Biden ha ampiamente usato nelle conversazioni private sul fatto che anche Nixon «la fece franca» dopo l’abbandono di Saigon e di Hanoi.

Difficile dire se un partito repubblicano che lo criticava sulla lentezza del ritiro ora possa riscoprire l’internazionalismo neocon di Bush e chiedere il siluramento di Sullivan. Al momento, sembrerebbe che l’azzardo di Biden e Sullivan stia reggendo, nonostante la morte di 13 marines all’aeroporto di Kabul.

© Riproduzione riservata