Le dimensioni del disastro della Linke, il partito della sinistra-sinistra tedesca, hanno superato le più fosche previsioni. Da poco più del nove percento la Linke crolla sotto il cinque (persi due milioni di voti) e si affida alla complessa architettura del sistema elettorale per rientrare al Bundestag.

Grazie a tre mandati diretti il partito può costruire un gruppo parlamentare di appena 39 eletti nel parlamento più grande di sempre, ben 735 seggi.

Dietmar Bartsch, ex capogruppo e che ha guidato la campagna elettorale insieme a Janine Wissler, non ha nascosto le dimensioni della sconfitta: «Dobbiamo capire cosa è successo senza affidarci a soluzioni semplicistiche».

Perché un partito fondato nel 2007 e che voleva cambiare il panorama politico tedesco dopo meno di quindici anni sembra arrivato al capolinea?

Alternativa?

In realtà la Linke, se si fa eccezione per il risultato del 2009, segnata da quattro anni di Grande coalizione e dalla crisi, non ha mai riscosso enorme successo. La sua strategia era segnata da una ambiguità di fondo: era alternativa alla Spd o intendeva spostarne gradualmente l’asse a sinistra?

Questa ambiguità ha la sua origine specifica nella storia nazionale tedesca ma in fondo segna la storia di tutta la sinistra europea dopo il 1989. L’idea, cioè, che esista uno spazio politico ed elettorale che contenda il primato alla terza via di Tony Blair.

È la tesi delle due sinistre, il cui successo si spiega anche con la sua perfetta simmetria con la storia delle sinistre socialiste e comuniste nel Secolo breve. 

In Germania la questione si intreccia e si radicalizza con uno scontro tra personalità destinate a non capirsi: Gerard Schröder contro Oskar Lafontaine, definito da un giornale inglese «l’uomo più pericoloso d’Europa». Quando Lafontaine si dimette da ministro, è scoppiato il movimento No global e lui legge le proprie dimissioni come l’effetto diretto dell’incapacità dei socialdemocratici di superare o anche solo riformare il neoliberismo.

A quel punto le sinistre “radicali” provano a parlarsi. Il modello, a fine anni Novanta, è quello italiano. Quando nei primi anni Duemila Schröder mette mano allo stato sociale un pezzo della Spd non ci sta e se ne va al seguito di Lafontaine. Da lì nasce la Linke.

E improvvisamente il modello a cui guardare non sono più i comunisti italiani, che hanno i loro problemi e nel 2008 usciranno dal parlamento, ma i tedeschi della Linke, la sinistra senza aggettivi.

Interessi nazionali

Poi arriva la crisi del 2008 che porta con sé qualcosa che a fine anni Novanta sembrava essere scomparso: gli interessi nazionali. Convinte che la lotta fosse contro la globalizzazione neoliberista, alle sinistre radicali gli stati nazionali apparivano relitti del passato.

E nella crisi qualcuno vede la conferma della necessità di una alternativa di sistema. Non più (solo) al neoliberismo ma all’austerità, che in Europa è rappresentata da Angela Merkel.

Dal 2010 in poi e almeno fino al 2015 contro la Grande coalizione “europea’”serve una forza a sinistra. Lo scontro alle europee del 2014 è proprio tra Martin Schulz, tedesco e socialdemocratico, e Alexis Tsipras, di sinistra radicale (Syriza) e originario proprio della Grecia.

Se a fine anni Novanta lo scontro esplodeva nei governi nazionali, adesso l’ipotesi è un’alternativa radicale a sinistra in un’Europa lacerata e dalla fragilissima struttura istituzionale e nella quale non può funzionare il riferimento a Jeremy Corbyn nel Regno Unito o a  Bernie Sanders negli Stati Uniti.

Se mezza Europa se la prende con la Germania, la Linke prova a tenere i piedi in due scarpe: tranquillizzare i tedeschi, soprattutto i lavoratori, e presentarsi come forza contro l’austerità. Ma è difficile.

A quel punto la nuova divisione: un socialismo nazionale, come proposto da Corbyn e Mélenchon e a cui guarda anche Lafontaine, o una forza europea e internazionalista?

Lo scontro esplode dopo la crisi dei migranti del 2015 e la questione dell’accoglienza, con gli stracci che volano nella Linke e in tanti altri partiti europei. Scontro che aumenta d’intensità, com’è ovvio, mano a mano che i partiti diventano più piccoli. Il precario equilibrio impone realismo, almeno in patria bisogna collaborare con i socialdemocratici.

I voti passati alla Spd

Di fronte a una Spd che propone un programma certo non radicale ma nemmeno privo di contenuti, 640mila elettori della Linke decidono di votare Olaf Scholz.

Cosa ancor più significativa, il cinquanta per cento dei giovani che votano per la prima volta si divide tra Verdi e liberali. A votare la Linke è appena l’8 per cento. È la fine, almeno in Germania dell’alternativa di sistema.

© Riproduzione riservata