Ci si potrebbe limitare ad aggiungerla al lungo catalogo delle esternazioni a effetto, gettate in tipica logica social sulla scena mediatica quotidiana per rimanere costantemente in primo piano, o considerarla come un’azione di disturbo nei confronti di Giorgia Meloni, che poche ore prima era volata a Varsavia per (sono parole sue) «far crescere la famiglia conservatrice europea» tramite un incontro con il premier polacco Mateusz Morawiecki e con Santiago Abascal, leader del partito fratello spagnolo Vox. E in entrambi i casi probabilmente si sarebbe nel giusto. Eppure, nell’ipotesi lanciata a Lisbona da Matteo Salvini – favorire la costituzione di un unico gruppo al parlamento europeo esteso dai popolari del Ppe ai nazionalpopulisti di Identità e democrazia, passando per i Conservatori e riformisti guidati proprio dalla presidente di Fratelli d’Italia, con il dichiarato scopo di sbarrare la strada al «fronte progressista» – c’è qualcosa di più di un estemporaneo gesto tattico. A confermarlo ci sono alcune delle frasi con cui il segretario della Lega ha accompagnato la proposta: «C’è il tema dell’immigrazione, della famiglia. Su alcuni temi a Bruxelles serve qualcuno che dica no all’utero in affitto e alle adozioni per i gay. Sul tema del commercio serve rilanciare il made in Europe».

Cambio di rotta

Niente di nuovo, si dirà, tenendo a mente il peso che queste argomentazioni hanno avuto nella retorica leghista degli ultimi lustri e del successo che hanno ottenuto presso l’elettorato italiano. Ma sino a oggi, l’accento posto su queste tematiche, spesso con il ricorso a una fraseologia radicale, era valso piuttosto a distinguere la Lega e le analoghe formazioni sparse sul continente europeo dalle forze della destra moderata – spesso messe sotto accusa per la timidezze nel contrastare le offensive degli avversari e per la disponibilità ai compromessi – sottraendo loro porzioni sempre più consistenti di consenso, che non a creare le premesse di un’azione comune. Il cambio di passo e di rotta sembrerebbe quindi molto significativo. C’è da chiedersi però se, dietro le apparenze, questa apertura non possa rivelarsi, nei fatti, una mera provocazione, destinata ad aprire disagi e lacerazioni nei destinatari.

Lo scenario che Salvini prospetta a livello europeo si è infatti presentato più volte, da vent’anni a questa parte, in singoli contesti nazionali, dove, dopo lunghi tentennamenti e non celati timori, partiti di centrodestra o della destra “rispettabile” si sono rassegnati a stringere la mano tesa dai rivali della «destra radicale populista» (copyright del politologo tedesco Hans-Georg Betz) e a imbarcarli in avventure governative in nome della comune avversione a una sinistra accusata di statalismo, burocratismo e scarso senso dell’identità nazionale. È accaduto in Austria, in Olanda, in Norvegia, in Finlandia, in Italia con Silvio Berlusconi a più riprese, in Danimarca con una formula ibrida di sostegno esterno. Ma quasi mai l’esperienza ha dato i risultati attesi. Il più delle volte, le unioni hanno avuto un andamento burrascoso e sono sfociate in divorzi e/o in emorragie elettorali a danno dei populisti che avevano avuto (limitato) accesso alle sale di comando del tanto detestato establishment.

Esiti che hanno riproposto e rafforzato le reciproche diffidenze. Tanto è vero che, in sede di voto europarlamentare, i deputati del Ppe hanno mostrato – a eccezione degli ungheresi di Fidesz, che per questo hanno preso alla fine la via della scissione – di trovare molto più facilmente punti di convergenza con socialisti e liberaldemocratici che con i colleghi collocati più a destra.

È difficile scorgere nell’attuale orizzonte internazionale nuovi fattori in grado di determinare una situazione tale da scongelare questa freddezza e rendere quantomeno accettabile un dialogo come quello proposto da Salvini. E non è un caso che Forza Italia si sia affrettata a respingere l’offerta al mittente, mentre Giancarlo Giorgetti la liquidava con il lapidario commento «io ho la mia posizione, a quanto mi risulta anche Salvini sta lavorando oggi verso nuove prospettive, nuovi orizzonti».

Ribaltare il rapporto

È dunque in un’altra prospettiva che va letto l’appello portoghese, che punta a fagocitare elettori, piuttosto che a coordinare gruppi parlamentari. E a ribaltare il rapporto di forze tra i partiti nazionalpopulisti – sin qui costretti a subire un’alternativa secca tra subordinazione ed emarginazione – e i potenziali alleati “moderati”.

Di questi ultimi, dagli anni Novanta in poi, le «destre radicali populiste» sono state costrette a seguire, a debita distanza la scia, pur di vedersi riconoscere un qualche ruolo, digerendone a forza posizioni e scelte che su molti temi smentivano le loro convinzioni e li obbligavano ad acrobatiche contorsioni. In politica economica, hanno dovuto mettere la sordina alle polemiche contro gli effetti nefasti della globalizzazione e accettare provvedimenti ispirati al più rigido liberismo. In politica estera e internazionale, si sono accodati agli imperativi di un atlantismo che fino al giorno prima avevano messo sotto accusa (il riferimento al testacoda leghista in materia di rapporti con la Russia è d’obbligo, ma non è certo isolato nel panorama continentale). Per quanto riguarda la concezione e i criteri di organizzazione dello stato hanno dovuto attenuare o cancellare le istanze localiste, federaliste e di democrazia diretta (anche qui, il caso italiano fa testo). E persino sul piano delle scelte ambientali, le originarie connotazioni ecologiste di più d’una di queste formazioni si sono sbiadite di fronte alle posizioni delle destre mainstream, legate a doppio filo a una visione industrialista, valorizzatrice delle ragioni della produzione e del profitto. La loro funzione si è quindi ridotta a un perpetuo attivismo verbale sui temi più “compromettenti” della sicurezza e dell’ostilità all’immigrazione, che è valso quote crescenti di consenso a livello di opinione pubblica ma di rado ha inciso sui provvedimenti governativi assunti dai riluttanti alleati, preoccupati di non sporcarsi l’immagine e di evitare giudizi o condanne di istituzioni sovranazionali mosse da linee di pensiero di ben diverso segno.

Patrioti contro globalisti

È a questa scomoda condizione che la manovra di Salvini sembrerebbe voler porre fine, spostando la linea di conflitto con gli avversari dal terreno della politica economico-sociale, dove peraltro gli opposti paradigmi su cui il confronto si è a lungo articolato – il welfarismo socialdemocratico e la deregulation neoliberale – paiono a corto di fiato, a quello del modello culturale di società, con un deciso attacco al progressismo “postmaterialista” della political correctness, con i suoi corollari di multietnicità, multiculturalismo, diritti civili e relativismo etico e la sbandierata difesa dei capisaldi di una visione tradizionalista, imperniata sulla riaffermazione di un ordine naturale, di identità popolari radicate ed esclusive e del primato delle preoccupazioni della sicurezza individuale e collettiva. Una visione antagonistica che riprende il sintetico binomio che Marine Le Pen ha posto fin dal 2017 alla base del suo tentativo, fin qui frustrato, di conquistare i favori della maggioranza degli elettorati francesi e quindi la presidenza del suo paese: patrioti contro globalisti.

Alcune recenti inchieste d’opinione svolte in diversi paesi europei (come quella della parigina Fondation pour l’innovation politique, che si definisce «think tank liberale, progressista ed europeo») dimostrano che questo nuovo antagonismo sta prendendo piede in fasce crescenti dell’opinione pubblica, specialmente giovanili, scalzando i termini usuali della contrapposizione tra destra e sinistra, e che chi se ne fa interprete, sull’uno come sull’altro versante di questo cleavage, ha buone probabilità di farsi strada a scapito degli attori tradizionali della competizione politica. Ciò pone due simmetrici interrogativi a quelle forze, di centrosinistra e di centrodestra, che per conservare capacità di attrazione verso l’“elettore mediano”, mitizzato dai politologi come l’ago della bilancia di ogni confronto elettorale, hanno sinora emarginato – più a destra che a sinistra – le ali “estreme” portatrici di queste nuove istanze: cedere ulteriori quote di consenso ai concorrenti interni al proprio campo, rifiutando di seguirli sul terreno da essi privilegiato, o accettarne la sfida riconoscendoli come partner paritari e così aumentare le probabilità di conquistare o mantenere il ruolo di governo? In entrambi i casi, si profilano, nel caso del Ppe, malumori e rischi di frattura. Qui sta l’insidia racchiusa nel dono avvelenato di Salvini.

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