La miccia è già accesa e la tensione tra Pechino e Washington è pronta a esplodere a metà della settimana prossima, quando Tsai Ing-wen dovrebbe vedere a Los Angeles Kevin McCarthy. L’incontro tra la presidente taiwanese e lo speaker della Camera dei rappresentanti – ha avvertito il governo cinese – «può causare un serio, ripetiamo, serio scontro con gli Stati Uniti», opporremo una «ferma reazione».

Ci avviciniamo a una replica del braccio di ferro dell’estate scorsa, quando la visita a Taipei della predecessora di McCarthy, Nancy Pelosi, fu seguita da un blocco navale dell’Isola da parte dell’Esercito popolare di liberazione (Epl)? Da allora il quadro è peggiorato: i comandi militari e le leadership politiche non comunicano più, mentre Pechino e Washington perseguono strategie opposte in Ucraina e gli Usa hanno inasprito l’embargo tecnologico contro la Cina.

Pechino non rincorre uno scontro – a cui non è pronta –, piuttosto punta a mantenere alta, con i suoi caccia e le sue navi, la pressione militare intorno all’Isola che il partito comunista considera un territorio da “riunificare” alla Repubblica popolare, se necessario con la forza.

Terra incognita

Ma Ying-jeou, ex presidente di Taiwan, con Song Tao, diretttore dell'Ufficio per gli affari di Taiwan a Wuhan (Foto Ap)

Tuttavia le relazioni sino-statunitensi sono entrate in una terra incognita in cui tutto può succedere. Lo conferma un sondaggio del Pew Research Centre pubblicato venerdì, secondo cui il 47 per cento degli americani è convinto che la contesa tra Pechino e Taipei rappresenti un «problema serio» per gli Stati Uniti.

Kevin Rudd, tra gli occidentali che meglio conoscono la Cina, ha definito le tensioni tra Cina e Stati Uniti «sempre più pericolose». Per dare un contributo a quella che per l’ex premier australiano è «la sfida che tutti dobbiamo affrontare: ridurre il rischio di crisi, conflitti e guerre accidentali» il governo di Canberra lo ha appena nominato ambasciatore a Washington.

A New York, durante il suo settimo passaggio negli Usa – evidentemente non uno scalo di routine –, prima di ripartire per il Guatemala e il Belize, Tsai ha dichiarato che Taiwan «è in prima linea, un faro di democrazia in Asia», e che le relazioni con Washington sono «più strette che mai», grazie anche a «significativi progressi» nella cooperazione economica e militare.

A Pechino la propaganda ha indorato la pillola con il “viaggio privato” nella Repubblica popolare (il primo di un ex presidente taiwanese) di Ma Ying-jeou organizzato, guarda caso, negli stessi giorni in cui la sua succeditrice del Partito progressista democratico (Dpp) è negli Usa e in America latina.

Sbarcato a Nanchino, davanti al mausoleo di Sun Yat-sen, il leader rivoluzionario nel pantheon sia dei comunisti sia dei nazionalisti, Ma ha dichiarato che «i popoli di entrambe le sponde dello Stretto sono cinesi», mentre i media di stato contrapponevano il suo viaggio “di pace e d’amicizia” a quello di Tsai.

Muro contro muro

L’altra “buona notizia” che il partito comunista ha potuto dare in pasto all’opinione pubblica è che, domenica scorsa, l’Honduras ha allacciato le relazioni diplomatiche con la Repubblica popolare cinese, lasciando alla Repubblica di Cina (nome ufficiale di Taiwan) il riconoscimento ufficiale soltanto di 13 paesi.

I leader cinesi però hanno poco di che rallegrarsi per i micro-stati che, uno dopo l’altro, cedono alle loro lusinghe e voltano le spalle a Taiwan. Dietro questa fiction c’è infatti la realtà di un’isola che gli Stati Uniti stanno reintegrando nel loro dispositivo militare dell’Asia-Pacifico, come ai tempi della Guerra fredda, e con la quale le “democrazie” europee e statunitense stanno intensificando le relazioni politiche ed economiche (negli ultimi giorni vi sono arrivate delegazioni di parlamentari tedeschi e francesi) con l’intento dichiarato di proteggerla dal paese che hanno additato come «rivale sistemico».

Si va, insomma, al muro contro muro. Al quale la Cina si sta preparando, a modo suo. Il quotidiano ufficiale dell’Epl ha pubblicato un articolo che sostiene la necessità di predisporsi a una guerra “legittima”, difensiva, che deve avere il consenso delle “masse”.

Una “guerra popolare” maoista, declinata nella Nuova era di Xi Jinping, alla luce delle osservazioni sulle battaglie in Ucraina dei generali cinesi, che caldeggiano un conflitto asimmetrico e sottolineano l’esigenza di preparare la popolazione. Secondo gli strateghi cinesi, quella per Taiwan sarebbe una guerra difensiva – più precisamente di “difesa attiva” –, perché si tratterebbe di salvaguardare la sovranità, gli interessi e lo sviluppo della Cina.

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