A volte le indicazioni dell’elettorato sono chiare, se si vuole leggerle. Lo studio annuale di Morning Consult, una compagnia di analisi dei dati fondata nel 2014, misura la popolarità dei governatori dei cinquanta stati americani.

In questi sondaggi, raccolti dal 20 luglio al 20 ottobre, la fotografia della situazione politica americana è limpida. Non serve leggere il rating di ogni governatore, quello è stato ampiamente raccontato dalla stampa locale.

E due democratici possono essere valutati molto diversamente: Gavin Newsom ha un tasso di apprezzamento basso come governatore della California (56 per cento), perché si tratta di uno stato con un elettorato molto progressista (persino nel segmento più conservatore, quello dei maschi bianchi), mentre la sua omologa Laura Kelly, eletta fortunosamente nel 2018 grazie alle posizioni estreme dell’avversario Kris Kobach, può essere ben felice del suo 54 per cento spuntato in uno stato che sin dal 2004, anno di pubblicazione del reportage What’s the Matter with Kansas? del giornalista Thomas Frank, è diventato il simbolo della nascita nel moderno conservatorismo anti elitario.

Quello che conta è il podio: i primi tre governatori per gradimento hanno due elementi in comune. Sono repubblicani e governano stati del nordest che hanno una forte prevalenza democratica.

Vermont in testa

Il primo in classifica è Phil Scott, che governa il Vermont con una popolarità del 79 per cento. È lo stesso stato dove Bernie Sanders è stato rieletto per il suo terzo mandato con il 67 dei consensi nel 2018. In realtà la cosa avrebbe perfettamente senso dal punto di vista storico: il Vermont è da sempre la culla di un particolarissimo brand di repubblicanismo americano: quello radicale e progressista.

Non si spiegherebbe altrimenti l’entusiasmo con cui un abitante su dieci andò a combattere nella guerra civile nelle fila dell’Unione nordista, né l’opposizione agli eccessi centralizzatori del New Deal da parte del senatore George Aiken, che in alternativa però proponeva assegni di disoccupazione universali e il salario minimo stabilito a livello federale, ma anche una politica internazionalista nel fornire aiuti all’Europa distrutta dal secondo conflitto mondiale ma ostile agli interventi su scala globale, come nella guerra del Vietnam.

Stessa posizione adottata anche dal predecessore di Sanders, Jim Jeffords, che addirittura nei primi anni di Bush è diventato una stampella del gruppo democratico da indipendente. Scott è l’ultimo esponente di questa dinastia informale, che propone al suo elettorato un fisco poco invasivo sul reddito e sulla proprietà e politiche progressiste sui temi sociali, prima tra tutte la copertura sanitaria universale, che ha rafforzato con un obbligo a livello statale che implementa quello già previsto per l’Obamacare.

Non manca il suo appoggio nemmeno al diritto all’aborto, sul quale ha firmato una legge a protezione, sul matrimonio egualitario e anche sull’uso ricreativo della marijuana, sulla quale Scott ha cambiato idea, dopo aver posto il veto su un disegno di legge che l’avrebbe legalizzata.

Non stupisce di vedere che, pur piacendo molto ai repubblicani dello stato, che sono circa il 30 per cento dell’elettorato, il governatore piace ancora di più ai democratici: il 75 per cento dei consensi del suo partito contro l’88 per cento del partito che nominalmente dovrebbe essere all’opposizione.

In realtà c’è una sorta di quasi unanimità in assemblea, con qualche oppositore conservatore o progressista, in un regime che ricorda il consociativismo elvetico.

La democratica meno popolare

In fondo alla classifica invece c’è una democratica, Kate Brown, che governa in Oregon, che gode solo del 43 per cento dei consensi. Nonostante l’economia stia andando molto bene: la disoccupazione è ai minimi col 4,4 per cento e le casse dello stato hanno raccolto la cifra record di 800 milioni di dollari nel 2021.

Lo stesso anno però ha visto il record di omicidi a Portland, la città più popolosa dello stato, dopo che nel 2020 le manifestazioni violente legate a Black lives matter avevano visto l’invio nel mese di luglio della Border Patrol, che aveva represso con durezza le manifestazioni anche usando arresti indiscriminati attuati da agenti a volto coperto.

Non esattamente un buon viatico per un governatore in carica che peraltro aveva mantenuto chiusure molto dure anche per quello che riguarda le lezioni scolastiche. Non è un problema per Brown, che nel 2022 non potrà ricandidarsi, così come non lo è per Doug Ducey, governatore repubblicano dell’Arizona sconfessato dalla dirigenza statale del partito repubblicano, guidato dall’ultratrumpiana Kelli Ward.

Lo è invece per Tony Evers che ha un misero 45 per cento di approvazione, un anno prima delle elezioni che potrebbero restituire a un repubblicano la guida del governo e di conseguenza il controllo delle operazioni di voto nelle elezioni presidenziali del 2024 nel Badger State.

Forse quello del Vermont non è un modello esportabile: lo stato è popolato per oltre il 90 per cento da bianchi ed è in gran parte rurale. Salta all’occhio però come uno con il suo profilo politico, a livello federale, sarebbe visto come un “Rino” da parte dei trumpisti, acronimo che significa “un repubblicano solo nel nome”.

Per contro, anche gli influencer progressisti di Twitter lo riterrebbero un “neoliberale”. Nessuna delle due etichette è efficace: Scott è un pragmatico, favorevole a politiche apprezzate dalla maggioranza degli elettori ed elastico abbastanza da cambiare idea, se è il caso. 

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