Mancano ancora una manciata di schede da contare in Georgia, ma il clamoroso ribaltamento democratico dello stato del profondo sud è stata una magia dell’afroamericana Stacey Abrams. L’attivista 46enne che è stata per sette anni nel Congresso locale ed è stata la prima donna afroamericana di uno dei grandi partiti a candidarsi per il posto di governatore. Con la sua campagna elettorale vibrante è riuscita in un miracolo politico in Georgia. La figlia di due pastori metodisti sa che il partito deve mettersi all’ascolto del mondo che rappresenta. Lei lo ha capito e non a caso è uno dei nomi fondamentali di questa tornata elettorale.

Ma la sua vicenda è parte di una grande ondata che ha portato molti nuovi rappresentanti delle minoranze al Congresso, nelle file dei democratici. A metà gennaio Ayanna Pressley, deputata democratica del Massachusets ora riconfermata, ha rilasciato un’intervista di quelle che restano a Root, noto magazine afroamericano. Pressley ha confessato di avere l’alopecia e di non avere più un capello in testa. L’ultimo pelo l’aveva abbandonata il giorno in cui si doveva votare l’impeachment per Donald Trump.

La confessione video era un’operazione di verità totale: non voglio mentirvi proprio io, afroamericana, che vi rappresento. Nel video Pressley si è rivolta alle giovani generazioni, soprattutto alle giovani donne che vedevano in lei, con quella geometria in testa di treccine, un modello. Ma tutto quello che aveva in testa se n’era andato per sempre e invece di portare parrucche tutta la vita, Pressley ha preferito farsi vedere com’era veramente, con la sua bellissima testa pelata.

Pressley è una della Squad, la squadra composta da Alexandria Ocasio-Cortez, Ilhan Omar e Rashida Tlaib. E per tutte loro la lealtà verso il proprio elettorato è sempre stata la priorità del mandato. Non solo negli affari di stato, come nel caso di Pressley, ma nella quotidianità della manutenzione del corpo. Ed è proprio il corpo, con i suoi colori, i suoi veli, i suoi rossetti, i suoi desideri a essere stato messo al centro dalla Squad.

Quattro donne progressiste molto diverse tra loro, per origini, orientamento, obbiettivi che hanno trovato però terreno comune nella lotta contro diseguaglianza, violenza, patriarcato e menefreghismo verso la natura. Molti commentatori hanno visto la Squad come un entità solo radicale ed estrema. Alcuni hanno bollato il fenomeno come temporaneo. Niente di più sbagliato. In realtà la Squad non solo è lì per restare, ma si è anche allargata. La base democratica è fatta di tante minoranze destinate a diventare maggioranze.

Certo sarebbe un errore dividere le persone in compartimenti stagni e considerare i latinos o gli arabodiscendenti o gli asiatico-americani o gli afroamericani come blocco unico. Basta vedere come i latinx in Florida (in maggioranza cubana) hanno dato il loro voto a Trump e in Arizona (dove sono maggiori le comunità di origine messicana e portoricana) invece che a Biden.

Ma il Partito democratico sta lentamente cominciando a capire che non può chiedere il voto senza rappresentanza. Che serve, ora più che mai, che il partito si allarghi a varie appartenenze, generi, visioni e che faccia di queste persone dei ponti per capire com’è cambiata e sta cambiando l’America.

La Squad sta crescendo. E lo si vede dai nomi che sono entrati al Camera o e al Senato e negli organismi locali. Sarah McBride è una di loro. Trentenne, prima transgender a entrare nel Senato americano per lo stato federale del Delaware. McBride lavora in politica ormai da anni. Era stagista alla Casa Bianca durante gli anni della presidenza Obama ed è stata la prima transgender a parlare ad una convention democratica. Oltre a essere una paladina dei diritti Lgbt, si è occupata molto di minori e salute. Una piattaforma politica che parla di disuguaglianze nell’accesso a una giusta retribuzione e alle cure mediche.

Questo della salute è un tema che sta a cuore anche a Cori Bush che ha sbaragliato con un 78,9 per cento l’avversario repubblicano nel suo distretto del Missouri, diventando di fatto la prima donna nera di quello stato a entrare alla Camera. Cori Bush è un nome noto agli attivisti già dal 2014 quando un poliziotto di Ferguson, Darren Wilson, ha ucciso con vari colpi di arma da fuoco il diciottenne Michael Brown. Le proteste di Ferguson erano solo l’anticipazione di quello che poi sei anni dopo sarebbe successo in tutto il paese dopo l’assassinio brutale di George Floyd a Minneapolis.

Al centro di quelle proteste c’era Cori Bush, infermiera, attivista, madre single. È stata malmenata, insultata, umiliata. I temi della sua piattaforma sono soprattutto sociali. Anche perché lei ha provato sulla sua pelle cosa significa non avere l’assicurazione sanitaria, non averlo da madre. Ed è attraverso i suoi occhi che St Louis e il Missouri ti appaiono non quel sogno presentato dalla voce canterina di Judi Garland negli anni Cinquanta, ma un luogo di diseguaglianze sociali mostruose, da rimettere in sesto.

E lo stesso pensiero lo condividono Mondaire Jones e Ritchie Torres, i primi neri gay ad arrivare al Congresso. Ha capito di essere gay a 13 anni, ma l’omofobia estrema dell’ambiente dove stava crescendo lo ha trattenuto in adolescenza a rivelarsi, cosa che poi farà con orgoglio. Una vita tutta in salita. Ora è lui l’uomo che rappresenterà il quindicesimo distretto di New York e una delle sue priorità è di riformare la polizia, tentando di creare un organismo che controlli e sanzioni le condotte violente.

Invece il sedicesimo di New York sarà rappresentato da Jaamal Bowman, un professore, che è riuscito a strappare il seggio alle primarie a un veterano del Partito democratico come Eliot Engel. Di questa tornata elettorale sono stati protagonisti anche i nativi americani. In New Mexico è stata riconfermata Deb Haaland e lo stato porterà al Congresso praticamente solo donne di minoranze: Yvette Herell, della nazione Cherokee, e Teresa Leger Fernandez.

Le piattaforme di questi nuovi rappresentanti della nazione possiamo tranquillamente definirle radicali, nel senso che pongono un dilemma radicale al Partito democratico, ovvero quello di occuparsi dei corpi dei propri elettori e di inglobarli non come fenomeno temporaneo, da titoli di giornale, ma come piattaforma programmatica di un partito che se vuole crescere deve mettersi in sintonia con la massa di gente che ha scelto di votarlo.

Se questo era già chiaro con la vittoria di Barack Obama, con queste elezioni 2020 è diventato un imperativo categorico.

© Riproduzione riservata