Siete stati svegli tutta la notte nel 2016 a guardare i numeri cambiare, con un nodo allo stomaco. O forse si siete svegliati la mattina successiva, avete dato un’occhiata al telefono e avete visto: ce l’ha davvero fatta. Orripilati, o forse esaltati, avete esclamato: «Ma i sondaggisti giuravano che avrebbe vinto Hillary

Da allora abbiamo promesso che non ci saremo più fidati dei numeri, trovandoci poi alla vigilia di queste elezioni presidenziali a divorare tutte le previsioni su chi è avanti e chi è indietro. Quasi tutti i sondaggi dicono che domani Donald Trump perderà contro Joe Biden. Ci possiamo fidare?

Abbiamo contattato lo storico della American University Allan Lichtman, che ha passato decenni a promuovere un sistema alternativo per prevedere i vincitori delle elezioni, una lista di tredici “chiavi” sviluppate studiando tutte le corse presidenziali a partire dal 1860.

Il suo modello pone una serie di domande con risposta sì o no su qualunque argomento, dallo stato dell’economia alla presenza di terzo candidato, fino ai successi o i fallimenti dell’Amministrazione sulla politica estera. Il modello di Lichtman ha predetto tutti i presidentei dal 1984, con l’eccezione di Al Gore nel 2000, quando ha previsto il vincitore del voto popolare ma non del collegio elettorale.

I sondaggisti dicono che questa volta è diverso. È davvero così?

Lichtman: questa volta è diverso per quanto riguarda i sondaggi, semplicemente perché i sondaggisti hanno lavorato per correggere alcuni degli errori sul campione fatti la volta scorsa. E il vantaggio di Joe Biden è più ampio e molto più stabile rispetto a quello che aveva Hillary Clinton quattro anni fa. In queste elezioni ci sono stati pochissimi cambiamenti nei sondaggi, un fatto notevole. Ma dico sempre di prendere i sondaggi con molta cautela perché si tratta di istantanee, non di previsioni. Abbiamo abusato di questi indicatori credendoli capaci di prevedere, mentre ci dicono soltanto ciò che sta accadendo in questo momento, e lo scenario può cambiare. L'altro fattore è che il margine di errore reale è molto più ampio di quello che i sondaggisti dichiarano. Come sappiamo i sondaggi dicono, ad esempio, che il margine è del 3 per cento, ma quello è il puro margine di errore statistico. È il margine che avremmo se prendessimo un campione di palline rosse in un enorme vaso pieno di palline verdi e rosse. Non tiene conto degli errori generati da risposte fuorvianti o degli errori c he si fanno nelle stime dei “potenziali elettori”, perché non sappiamo con certezza chi effettivamente andrà a votare.

Allora perché i sondaggi hanno un ruolo così importante nel modo in cui concepiamo le elezioni?

Lichtman: Innanzitutto, per i media è molto facile scrivere pezzi sui sondaggi: non devi nemmeno alzarti dal letto la mattina. Leggi i sondaggi, e scrivi l’articolo. Secondo, i sondaggi drammatizzano gli eventi. Basandosi su quello che si dice oggi si pensa di poter dire quel che succederà domani. Si crea così l’impressione che le elezioni siano come corse di cavalli, con i candidati che passano in testa e poi ripiombano indietro. Ultimo elemento: i sondaggi danno l’impressione di essere precisi. Il sondaggio ha la presunzione di dare numeri esatti, quando in realtà i numeri possono essere piuttosto diversi dalle stime.

La nostra ossessione per i sondaggi distorce il processo politico?

Lichtman: Decisamente. Le mie tredici “chiavi” per la Casa Bianca hanno predetto correttamente tutte le elezioni presidenziali da quando, nell’aprile del 1982, due anni e mezzo prima delle elezioni, ho previsto che Ronald Reagan sarebbe stato rieletto nel mezzo di quella che allora era la peggiore recessione dalla Grande depressione. Ciò che rende le “chiavi” diverse è che testano  le dinamiche fondamentali che regolano il funzionamento delle elezioni reali. Prendono in considerazione la forza del presidente in cerca di rielezione e le sue performance basandosi sull’idea che le elezioni presidenziali sono essenzialmente voti a favore o contro il record del partito che controlla la Casa Bianca. È il modo in cui si governa che conta, non la campagna elettorale.

Soltanto due delle tue “chiavi” si concentrano sulla personalità dei candidati, sul loro carisma. Siamo troppo fissati sul singolo mentre dovremmo invece avere una visione più ampia?

Lichtman: Tendiamo a concentrarci ossessivamente sui candidati e sulla campagna e non guardiamo abbastanza le dinamiche delle elezioni. E c’è una ragione per questo. Nel 1961 Dwight Eisenhower, nel suo discorso di addio, avvertì dell’influenza del «complesso militare-industriale». Ebbene, oggi abbiamo un complesso politico-industriale, con il suo “triangolo di ferro”. In un angolo ci sono tutti i sondaggisti, i consulenti, i gestori, la pubblicità, che guadagnano enormi somme di denaro basandosi sulla falsa idea che le elezioni sono corse di cavalli decise da chi è avanti o indietro giorno dopo giorno, basandosi su quello che i candidati dicono e fanno. Nel secondo angolo ci sono i media che guadagnano seguendo le elezioni minuto per minuto e dicendoci chi è avanti e indietro. Nel terzo vertice ci sono i candidati, che hanno paura di andare contro i media, i consulenti, i sondaggisti e la pubblicità. Ecco perché abbiamo queste campagne ristrette, che puntano all’attacco, a una affermazione. Se prendessimo per vera l’ipotesi delle “chiavi” – e cioè che quel che conta è il modo in cui si governa, non la campagna – potremmo avere un tipo di campagna elettorale totalmente diversa. Secondo i punti chiave si dovrebbe fare campagna per costruire un mandato per governare. Offrteci la vostra visione. Diteci nello specifico quali progetti di legge presenterete nei primi cento giorni, quali ordini esecutivi promulgherete, che tipo di persone inserirete nel vostro gabinetto, nella magistratura, alla Casa Bianca. Così facendo avrete fondato una base per il governo che aiuterà il partito a vincere le prossime elezioni. E anche se perdete, almeno avrete lasciato il segno nel paese e forse ispirato la prossima generazione. Chi ricorda qualcosa di quello che hanno detto i recenti candidati perdenti? Hillary Clinton, Mitt Romney, John McCain, John Kerry, Al Gore: nessuno ricorda nulla di ciò che hanno detto.

Questa volta prevede una vittoria di Biden. Secondo il suo modello, cos’ha questo candidato democratico che mancava a Hillary Clinton?

Lichtman: Quando ho predetto la vittoria di Trump nel 2016 non era perché le “chiavi” erano a favore di Trump. L’ho fatto perché c’erano abbastanza elementi contro i democratici in carica. Secondo il mio modello, servono sei o più negativi per fare fuori il partito che controlla la Casa Bianca. E i democratici ne avevano esattamente sei contro nel 2016. Per questa ragione ho detto che qualsiasi repubblicano avrebbe battuto un qualsiasi democratico perché, in base alle “chiavi”, era un’elezione che prospettava un cambiamento.

Alla fine del 2019 Trump era indietro di quattro “chiavi”, due in meno rispetto alla prevista sconfitta. Poi però siamo stati colpiti dalla pandemia e dalle richieste di giustizia sociale e razziale. Invece di affrontare in modo serio queste sfide, Trump è tornato al suo manuale di sfidante e ha pensato di poter parlare a modo suo. Ovviamente non funziona. Il risultato è stato che ha perso altri tre “chiavi”:  quella economica nel breve periodo, misurata da una recessione nell’anno elettorale; la “chiave” economica di lungo termine, per via della crescita negativa; e la “chiave” dei disordini sociali che stanno imperversando nel paese.

Ora è indietro di sette punti, uno in più di quanto è necessario per prevedere che diventerà il primo presidente in carica dopo George H.W. Bush a perdere la rielezione. Mai nella storia degli Stati Uniti il partito alla Casa Bianca ha subito un così improvviso e drammatico capovolgimento della sorte nel giro di pochi mesi. E Trump non ha nessuno da incolpare tranne sé stesso.    

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