Le dichiarazioni dei diritti sembrano costituire la bussola che orienta il mondo d’oggi. La Dichiarazione dell’Onu del 1948, ricalcata alla lettera sulle dichiarazioni americana del 1776 e francese del 1789, è stata sviluppata in seguito da molte altre dichiarazioni di diritti (delle donne, dei fanciulli, dei «popoli indigeni»), e in Europa dalla Carta di Nizza, del 2000, per la quale «la tutela dei diritti fondamentali costituisce un principio fondatore dell’Unione europea e il presupposto indispensabile della sua legittimità». I princìpi elencati nei sei capitoli della Carta – dignità, libertà, eguaglianza, solidarietà, cittadinanza e giustizia – non hanno vita facile.

Non l’hanno mai avuta, in realtà. Da più parti contestati fuori d’Europa, la loro stessa evoluzione rischia di dissolverne l’essenza prima. Già la proclamata estensione globale della Dichiarazione del 1948 non fu semplice. I paesi dell’area islamica tardarono a firmarla – l’Egitto solo nel 1969 –, più volte dichiarando l’inconciliabilità dei valori occidentali con i precetti islamici e firmando nel 1990 una Dichiarazione dei diritti umani nell’Islam.

Le tre conferenze

Del resto nel 1948 gran parte del mondo viveva ancora in regime coloniale. Superato quello, venne un momento in cui l’Onu stessa ormai globale tentò di adattare i diritti alle varietà regionali. Furono convocate tre conferenze, a Bangkok per i paesi asiatici, a Tunisi per quelli africani e a San José per quelli latino-americani.

La conferenza dei paesi riuniti a Bangkok tra il marzo e l’aprile 1993 affermò un relativismo sui diritti civili per il quale ogni paese aveva i propri modelli culturali. Furono elaborati presunti «valori asiatici», vagamente ispirati a una tradizione di pensiero confuciana che mettevano l’accento sulla comunità e sulla famiglia piuttosto che sull’individuo.

Di qui l’enfasi sulla coesione sociale, sul consenso (rispetto al conflitto), sui doveri anziché sui diritti, sull’ordine, la disciplina e l’armonia (anche «razziale e religiosa»). Infine, reclamarono un «diritto allo sviluppo» – caro soprattutto agli africani –, un diritto che con una apposita Dichiarazione del 1986 venne fatto proprio dall’Assemblea dell’Onu, riferendolo non solo alle collettività, ma anche agli individui, come era nello spirito della Carta.

Col tempo, molti dissero che ciò che era inteso come universale, era da intendersi come occidentale: l’Europa, scrisse uno storico indiano, era diventata una provincia del mondo. Peraltro, tensioni e conflitti interni a quella provincia non erano mai mancati. Innanzitutto, in controtendenza rispetto al cammino dei diritti si erano mossi i conservatori, i nemici dell’89, che sostenevano valori sia nazionali, sia familiari-religiosi. Come fanno oggi sovranisti o familisti.

L’assolutezza dell’individuo

Che l’assolutezza dell’individuo singolo fosse una astrazione forse storicamente necessaria, ma impossibile, era evidente fin dall’inizio, quando fu dichiarata a gran voce l’irrealtà di un individuo declinato soltanto al maschile. Da allora, alterne vicende hanno scandito un percorso di emancipazione delle donne, o di parità tra i sessi, che ha segnato battaglie d’ogni tipo e non è ancora compiuto. Anche altri valori insidiavano la preminenza dell’individuo. Le differenze dettate dalle fedi avevano un lunga storia all’interno del mondo cristiano, anzi erano alla base della modernità europea, ma non per questo erano superate, come sempre più si sarebbe visto nel caso della presenza islamica in Europa.

A lungo hanno poi operato le identità di classe, oppure quelle nazionali, a base linguistica o etnica. L’uguaglianza nei diritti infatti è per sua natura legittimata e garantita dalle istituzioni, con le loro leggi, e i loro codici. E le istituzioni a noi note hanno base statale, e per quanto si invochi pluralismo e convivenza gli stati hanno matrice nazionale, ciò che ha prodotto le «minoranze» e i loro diritti, ma anche le connesse dinamiche nazionalistiche, che oggi chiamiamo «sovraniste».

Nel complesso, si tratta di differenze, di tensioni e conflitti che agitano il mondo dei diritti, ma che finora sono sembrati disposti in un ordine lineare, tra conservazione e progresso, tra il mondo che è, o è stato, e quello che vorremmo che fosse, verso il futuro, il mondo della libertà. Invece oggi siamo di fronte a un singolare cortocircuito. Viene il sospetto che proprio la marcia di diritti ne contraddica alcune fondamenta, ne eroda le basi.

Intaccare l’essenza

L’intensificazione, la specificazione, la “pluralizzazione” subita dai diritti rispetto alla relativa semplicità del 1789 hanno finito con l’intaccare la loro stessa essenza e gli stessi pilastri su cui essi si reggono. Se infatti in origine i diritti non differenziavano i soggetti su base religiosa, culturale, o etnica, sembra che oggi sia proprio ciò che si chiede loro di fare.

Si pensi alle tradizioni storiche risalenti, alle identità culturali più profonde di tipo etnico, religioso, linguistico, materia delle rivendicazioni nazionali ottocentesche, ora negate in nome di identità sub-nazionali, o prenazionali.

Dal Québec alle Fiandre alla Catalogna, e tipicamente nel Regno Unito, dove Galles e Scozia contestano appunto le forme di quell’unione, non sono messi in discussione i processi di nation building, di formazione delle cittadinanze statali, ma vengono rivendicate cittadinanze «differenziate». Il premoderno sembra così riemergere a nuova vita in età «postmoderna». Del tutto peculiare a questo proposito è la vicenda degli Stati Uniti, dove l’identità «nazionale» del paese non sente il peso di un denso retroterra storico ma è fondata sull’integrazione di popolazioni diverse, come vuole la metafora corrente del melting pot.

La maggiore sofferenza di una comune «nazionalizzazione» su base civica è avvertita non tanto con riferimento alle popolazioni autoctone, amerindie – semplicemente sterminate –, e nemmeno attorno alle varie popolazioni che hanno alimentato e alimentano il flusso dell’immigrazione, bensì attorno all’integrazione della popolazione nera un tempo schiava e a lungo oggetto di pesanti discriminazioni. È qui che la dipendenza schiavile si dimostra intrinseca alla modernità dei diritti, e minaccia di metterla in crisi. L’espressione iconica di questa nazionalizzazione civica è il celebre discorso in cui nel 1963 Martin Luther King jr invocava una emancipazione che doveva essere perseguita nelle forme già sperimentate dalle social-democrazie: l’uguaglianza non solo formale, ma anche sostanziale, con provvedimenti intesi a riequilibrare le disuguaglianze, seguendo la logica di una “social justice”, una giustizia “retributiva”.

Molti tuttavia ritengono menzognero e irreale quel percorso di integrazione perché incapace di intaccare l’essenza stessa della cittadinanza, della quale la discriminazione schiavile non è una pagina oscura da rimuovere, ma l’essenza, che i rapporti tra bianchi e neri quotidianamente segnalano. Per questo c’è chi ha proposto che invece del 1776 sia dichiarato anno di fondazione degli Stati Uniti il 1619, quando la prima nave carica di schiavi è approdata sulle coste della Virginia: l’identità del paese dovrebbe essere nella schiavitù, non nella Dichiarazione dei padri fondatori (che tra l’altro per lo più possedevano schiavi). Alla pretesa neutralità e universalità dei diritti dell’uomo affermata nel 1776 si oppone dunque l’argomento che quei diritti non sono affatto neutrali, ma in quanto occidentali, in quanto riconosciuti come “provinciali”, sono modellati sull’etnia dominante che conferisce la cittadinanza, nel caso di cui parliamo l’etnia bianca, di matrice europea e cristiana (nonché maschile). Come in effetti indubbiamente è.

Questo è il punto: la critica ai diritti non viene mossa all’occidente dall’esterno, da civiltà altre, ma viene dall’interno, e non è agitata soltanto dai nemici storici dell’89 – i conservatori, i “reazionari” – ma appare anche come esito dello stesso ampliamento dei diritti. Nasce infatti in una opinione che avendo dato la massima estensione ai diritti denuncia quanto debba la propria civiltà alla loro passata negazione.

La cultura della colpa

Non lo sopporta, ed è incline a interiorizzare le accuse all’occidente, una introiezione magnificamente rappresentata nell’isola di Goré e, in Senegal, dalla quale partivano le navi negriere, allorché nel 1992, il pontefice Giovanni Paolo II implorò il perdono del cielo per i misfatti dei cristiani.

Può darsi che il Dio dei cristiani li perdoni. Essi comunque sentono la colpa. Giunto con le dichiarazioni dei diritti a un culmine della propria storia, l’occidente ne pronuncia una condanna radicale, di portata pari all’universalità delle sue affermazioni, concettuali e materiali. Così l’estensione dei diritti applica la cultura della colpa all’intero processo storico della modernità. E poiché la modernità si è manifestata nei rapporti dell’Europa col mondo, una visione semplificata della storia ma essenzialmente pertinente individua quei rapporti nei processi di espansione, conquista, evangelizzazione, sfruttamento e sottomissione. Ne conseguono inarrestabili tendenze a ripudiare, a disconoscere il passato, e a porre al centro dei diritti l’alterità.

Documento esemplare di questa inclinazione è, tra le tante pronunciate dall’Onu, la Dichiarazione dei diritti dei popoli indigeni del 2007, laddove i «popoli indigeni», mai definiti, sono intesi complessivamente come «diversi» (onde «il diritto di essere diversi»), una diversità implicitamente individuata dall’essere vittime di «ingiustizie derivanti dalla colonizzazione». Individui e persone, protagonisti della storia dei diritti, scompaiono, lasciando il posto agli «indigeni». Così era per i primi conquistadores, e così è oggi, ma con una inversione di valori e gerarchie.

Spasmi di iconoclastia

Intanto c’è chi si sforza di cancellare i segni, i reperti, le tracce e i simboli della storia coloniale, che sono ovunque. Uno spasmo di iconoclastia caratterizza tutte le fasi storiche di passaggio, quando si distruggono vestigia del passato e se ne edificano di nuove. Ai contemporanei sono familiari gli eccessi cui sono pervenute fazioni del variegato mondo islamico quando sono arrivate a controllare un territorio e a farsi stato, come nel caso dei talebani in Afghanistan o dello stato islamico dell’Iraq e della Siria (Isis). In quei casi, hanno dichiarato guerra a ogni vestigia artistica delle civiltà passate, anche preislamiche, che mai prima un movimento musulmano aveva aggredito. Così sono state fatte esplodere le grandi statue di Buddha scolpite tra il III e il IV secolo a Bamiyan, in Afghanistan, e l’Isis ha sistematicamente distrutto, oltre a chiese, tombe, santuari, necropoli e siti archeologici.

L’iconoclastia oggi a opera degli occidentali è diversa, perché rivolta contro sé stessi. Nel caso degli Stati Uniti sono stati presi di mira la stessa identità del paese, i padri fondatori e il loro 1776, come si è detto. Sotto attacco è poi l’intera vicenda delle scoperte geografiche. Cristoforo Colombo è additato come genocida e responsabile dei secoli di razzismo a seguire perché con la «scoperta dell’America» ha aperto la via alle esplorazioni.

Anche in Europa, come negli Stati Uniti e in Canada, l’attacco al ciclo coloniale della storia europea ha portato a numerosi e frequenti atti di cancellazione, rifiuto e rimozione che hanno travolto tutte le arti e il pensiero classico. Accortasi che il Cristo è tradizionalmente raffigurato come biondo dagli occhi azzurri, lui che era palestinese, la cattedrale anglicana di St. Albans, nello Hertfordshire, ha posto all’altare principale una rivisitazione dell’ultima cena leonardesca con un Cristo nero e il capo della chiesa d’Inghilterra ha dichiarato: «Rivediamo il Gesù bianco e le statue nella cattedrale di Canterbury». Ed anche qui, di pari passo con la cancellazione di ogni riferimento al colore nero procede la diffusa richiesta degli studenti universitari – che risulta in genere accolta – di “decolonizzare” i programmi eliminando i classici, da Platone a Cartesio o Kant.

Insegnamenti universitari vengono così censurati, mentre la biblioteca dell’Università di Princeton ha preso in considerazione l’ipotesi di non acquistare più libri di storia greca e romana perché società schiaviste.

I colpevoli, gli invasori colonialisti, sono connotati razzialmente, essendo sia le popolazioni amerindie, sia gli schiavi neri vittime della tratta, tutti di ceppo diverso dal bianco caucasico, o come altrimenti si voglia definirlo. Così come è accaduto al “popolo deicida”, il popolo ebraico, il cui delitto originario ha inseguito le generazioni attraverso i secoli, similmente i “bianchi” sono a priori corresponsabili dello sterminio dei nativi e della schiavitù dei neri, e lo è oggi ogni singolo bianco, quali che siano i suoi gesti o le sue opinioni.

Cancel culture

La “cancel culture”, cultura dell’annientamento, con l’ostracismo sancito per ogni manifestazione di pensiero dissenziente, con la negazione di ogni prospettiva storica, l’appiattimento, l’“attualizzazione” del passato, nonché l’adozione del principio della “responsabilità collettiva” che assorbe e nega il soggetto individuo, rischia di decostruire le basi stesse sulle quali erano stati fondati i diritti umani.

 

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